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Maurizio Pratelli

Collaboratore

I bar delle grandi speranze

Demonizzare i locali per non vedere i reali problemi di Como

Dopo un anno passato a sopravvivere tra le regole fluttuanti delle zone gialle, arancioni e rosse, che hanno comportato per bar e ristoranti chiusure e limitazioni per lunghissimi periodi, la ripartenza a Como è segnata dalla solita polemica sul turismo domenicale. Insomma, invece di vivere con gioia il ritorno alla vita, la ripresa di arrivi importanti in città, ci si straccia le vesti sulla qualità dei turisti.

Un po' come se la città, con il suo abituale snobismo comocentrico, dovesse trovare una ricetta per filtrare i suoi visitatori. Colpevoli di questa invasione pare siano proprio bar e ristoranti che, approfittanto delle deroghe alla conquista di spazi all'aperto, hanno inondato di tavoli le vie e le piazze di Como. Insomma quel che altrove è normalità, anche prima della pandemia, a Como è vissuto come un oltraggio alla bellezza. Sappiamo benissimo che a far bella e attraente una città sono innnanzitutto la valorizzazione dei suoi luoghi di pregio e una adeguata proposta culturale, ma demonizzare il ristoro è sbagliato e inutile.

Se nel primo caso, ne abbiamo scritto qui lo scorso aprile, c'è ancora moltissimo da fare, nel secondo caso saranno proprio i mesi estivi, pensiamo ad esempio al Festival di Villa Olmo, a dare alla città un nuovo respiro. E se da un lato tutto ciò andrà accompagnato da una comunicazione adeguata, non possiamo pensare che un'offerta di maggior prestigio possa (e debba) spazzare via chi a Como ci viene abitualmente solo per fare una passeggiata in centro o in lungolago.

Tuttavia c'è chi pensa, con ragione per chi scrive, che la pandemia abbia finalmente offerto l'occasione per offrire più spazio a quei locali che prima erano sottoposti a regole fin troppo rigide per una città turistica: pochi tavoli all'aperto e guai a spostare una sedia al di fuori dello spazio concesso. Una libertà che non riguarda solo i locali del centro storico ma, per fortuna, anche quelli che vivono intorno alle mura che hanno così sottratto posti alle auto e reso la città un po' più vivibile. Perchè al contrario di quel che si pensa, i primi a beneficiarne sono i cittadini tutta settimana e non solo i turisti nel weekend. 

Perché qui non si tratta, per quanto tutto ciò sia quasi un dovere, di dare una mano a una categoria mortificata durante il lockdown, ma di offrire una città il più ospitale possibile. Senza pensare che la qualità e la conquista di spazio debbano per forza fare a pugni. E di certo non è questa la stagione per avere la puzza sotto il naso. Nessuno è così sprovveduto da pensare che basti avere tanta gente seduta ai tavolini per fare di Como una città "arrivata". Parafrasando Moehringer, non saranno certo i bar a risolvere le grandi speranze della città. Ma nemmeno possono diventare l'alibi di ciò che non c'è, di colpe che non sono loro: fanno, quando possono, solo il loro mestiere. E ora tocca a tutti fare bene il proprio. 

Non esiste un turismo usa e getta e uno da conservare: sono due binari, uno non può escludere l'altro. E pensare oggi, dopo un anno disgraziato, a una sorta di contenimento è di per sé una follia. Tanto più se legata al fatto che gli stranieri al momento arrivano ancora con il contagocce. Tutto ciò non ci sottrae dalla certezza che Como debba regalarsi quanto prima una visione che le permetta di guardare con più serenità al vero ritorno alla normalità. Uno sguardo che non può fermarsi certo alla sola ristorazione ma che deve rimettere in circolo le virtù dimenticate: da Villa Olmo ai Giardini a lago, dalla piste ciclabili agli spazi museali, dal Politeama agli impianti sportivi. E allora sì, una volta che tutto ciò sarà nuovamente disponibile, che potremo discutere dell'invasione di sedie, tavolini e cavallette. Magari seduti al bar.  

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