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Venerdì, 19 Aprile 2024
Editoriale

La fabbrica di plastica

Se sterilizzare il corpo può essere una necessità di questa maledetta stagione, anestetizzare il cervello è un delitto. Sempre

La deriva disumanizzante a cui stiamo assistendo impotenti, arresi all'ineluttabilità dell'emergenza, ha bisogno di una medicina. Sì, c'è da tutelare la salute, ma non c'è cura se al centro non si rimette l'anima dell'uomo. Non si può governare una tragedia solo alienando la vita delle persone attraverso regole e divieti peraltro spesso incongruenti tra di loro. Nonostante la pandemia, abbiamo il dovere di non arrenderci al declino dei valori (tutti) che regolano una società civile.

Non voglio nemmeno tornare, non qui, sulla questione delle scuole o dei teatri, sui diritti maldestramente calpestati dell'istruzione e della cultura. E nemmeno sull'efficacia del labirinto dei colori con annesso coprifuoco a cui siamo costretti da mesi. Perché il vero dramma della gestione di questa pandemia non è il forzato isolamento delle persone (non solo) ma le scorie che vengono prodotte per allontanare il lento ritorno alla normalità.

Una reazione innaturale che porta ad accettare anche l'irrazionale. D'altronde, quando solo ieri si è tornati a parlare di guerra e di norme da guerra, forse ci si dovrebbere rendere conto che qualcosa non funziona. Ma ancora più del linguaggio scomposto dei singoli e di come viene accompagnato mediaticamente, il vero problema è un altro, ed è spesso più tragicamente simbolico che necessario.

Abbiamo visto i giochi dei bambini nei parchi avvolti nel domopak, disegnato un futuro di spiagge e ristoranti sigillatti nel plexiglass, abbiamo fatto della distanza tra le persone un dogma. Tanto che persino il termine distopico è andato presto in soffitta soppiantanto dalla realtà. A non tramontare mai, invece, è il moralismo, quel sottile ricatto con cui da una parte si giustifica tutto e dall'altra si condanna chi osa anche solo mettere in discussione la gestione dell'emergenza sanitaria. Come una religione che non ammette dubbi ma chiede solo fede acritica.

Ed è così, timorati dai dettati di questi comandamenti, che dobbiamo non solo accettare ma anche essere grati, ad esempio, del fatto che qualcuno abbia pensato alla  "stanza degli abbracci". Un mondo di plastica dove le persone ritrovano gli affetti attraverso una protezione che qualcuno vuol fare passare per normale. Come se dopo un anno fosse una conquista e non una sconfitta. Fare un test di negatività all'ingresso delle Rsa era troppo complicato? Permettere a un parente vaccinato la visita di un ospite vaccinato? Nemmeno. Tutto questo infinito dolore meritava il massimo degli sforzi possibili per trovare anche altre soluzioni.

Meglio una stanza sterile, che di umano non ha più nulla, nemmeno il respiro. Meglio imporre una visione disperata del mondo, persino alle persone più fragili, che cercare di rimettere la questione umana al centro della terra. Qui non c'è nulla da negare ma molto su cui riflettere. Sigillare in un gigantesco preservativo collettivo è la negazione stessa della vita e della sua provvisorietà.

E di tutto questo dobbiamo almeno poterne discutere, difendendo il diritto al confronto senza contrapposizioni strumentali, o peggio ideologiche, che portano solo a mettere la ragione da una parte e il torto dall'altra. Il vero pericolo non è nemmeno la plastica ma subirla in silenzio. Perché il rischio non è quello di sigillare le braccia ma la mente. Se sterilizzare il corpo può essere una necessità di questa maledetta stagione, anestetizzare il cervello è un delitto. Sempre. Soprattutto quando la realtà è così complessa da comprendere. A iniziare da chi scrive qui. Tuttavia, senza confronto abbiamo già perso. Tutti

Ma la fabbrica di plastica
Ha una valvola di sfogo nel costato
Ed è lì che sono nato
È da lì che son passato

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