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Diario emotivo ai tempi del coronavirus (05.20)

Appunti disordinati dalla zona rossa

Quel che succede in questi giorni è davvero incredibile. Le persone che hanno usato i numeri e i titoli dei giornali per farci capire quanto fosse devastante il virus, sono le stesse a cui ora non vanno più bene. Te li hanno tirati in faccia mentre portavi fuori il cane, ti hanno morso le caviglie mentre correvi. Ti hanno inseguito nei boschi e persino sotto casa. Te li hanno rovesciati in testa al primo bicchiere di vino, ti hanno fatto ombra al primo raggio di sole. Li hanno cantati alla finestra del primo bacio rubato. Ora che i riscontri numerici sono decisamente positivi, sembrano così infastiditi da arrivare al punto di rinnegare le stesse fondamenta della loro battaglia. Senza entrare nel merito di ciò che dicono molti medici, è del tutto evidente che le terapie intensive si sono svuotate e che i nuovi casi gravi sono per fortuna pochissimi. Lo dicono le stesse fonti ufficiali, non un manipolo di terrapiattisti. Ora che viene più difficile fare i soldati di sventura, a qualcuno manca la terra sotto i piedi: non avendo più un nemico a cui dare la colpa per un aumento dei contagi che non c’è, sono smarriti. I peggiori, gli irriducibili, si concentrano sulla seconda ondata: senza più argomenti per la prima, proiettano frammenti della sciagura attesa per il prossimo autunno. Insomma, quella che dovrebbe essere una buona notizia per tutti - al tramonto di una tragica stagione di cui nessuno ha capito un cazzo – diventa invece l’altra faccia del complottismo.

Un paradosso davvero difficile da spiegare, soprattutto quando si insiste con la cantilena dei messaggi fuorvianti. Come se ci si trovasse al cospetto di soli imbecilli, di un popolo incapace di sopravvivere senza ricevere minacce o falsi paternalismi. Dopo aver giustamente combattuto chi diceva che la pandemia era un’invenzione di stato, ma purtroppo anche chi cercava di sopravvivere alla pandemia senza viverla come un condannato a morte, ora sembrano non volersi arrendere alla sua naturale uscita di scena, augurandosi almeno un arrivederci e non un addio. Occorre, per quel che conta, dare il buon esempio. Questo viaggio è finito: da domani la Lombardia non sarà più il mio confine. Ho raccontato questi giorni d’istinto, senza filtri, senza temere il giudizio o il confronto. Mettendoci la faccia e il cuore. È stato un cammino libero sotto un cielo mai domo tra la nostalgia del passato, l'inquietudine per il futuro e la necessità di vivere il presente. Quando ho allungato troppo il passo, mi sono voltato; ho aspettato e teso la mano. Quando non l'ho trovata, ho sentito un dolore al cuore. Ma lungo la strada, non sono mai stato solo.

Four strong winds that blow lonely
Seven seas that run high
All those things that don’t change come what may
If all the good times are all gone, then I’m bound for movin’ on
I’ll look for you if I’m ever back this way

31 maggio - 1 giugno (37 gradi di salute)

Il Signore della Febbre ti aspetta al varco senza spostarsi mai di un grado. Oggi è persino più freddo del solito. Oggi non ha nemmeno bisogno di puntarti alla tempia la sua pistola laser: con una mano sicura intima l’alt da lontano, con l’altra attende il segnale e poi ti invita a proseguire. Cazzo, da oggi al supermercato c’è un civilissimo semaforo che regola la nostra temperatura. Scatti al verde e arrivi al primo scaffale con il piede incerto di un neo patentato. Ma è solo un attimo: appena riesci ad aprire un sacchetto, ad inserirci la prima zucchina dopo averla trattenuta come fosse un'anguilla con i guanti intinti nel gel e gli occhiali appannati, ti senti uno che ce l’ha fatta. Poi magari a casa ti accorgi di aver comprato cetrioli ma non importa, conta il gesto di cui sei capace! E siccome sei uno che appena capisce come ci si muove non lo fermi più, azzardi persino un salto in un negozio di giardinaggio. La fila è lunga, ordinata e paziente. Primo stop. Sanificazione del carrello e avanti veloci. Secondo stop. Qui il signore della Febbre è ancora come quelli di una volta: pistola alla tempia e un liberatorio beep ti consegna all'ultima passata. Terzo stop: un bel giro di gel, due grandi sacchetti per le mani e finalmente sei pronto per varcare la soglia del paradiso dell’ortensia con lo stesso entusiasmo di un quindicenne dinanzi a un seno nudo dopo essersi infilato un preservativo con l’astuzia del lubrificante. Naturalmente appena entri ti assale l’ansia da prestazione e hai un solo desiderio: rimetterti i pantaloni e scappare. Poco importa se non hai colto quel fiore. Così non ce la fai, l’amore (per le rose) può aspettare.

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Inspiegabilmente si fa sentire la fame e visualizzi una trattoria, una di quelle lontane dalla città, dove chissà se la gente e le abitudini sono ancora quelle d'un tempo. No, la civiltà è arrivata fin qui. All'ingresso c’è l’oste, perché qui il Signore della Febbre non se lo possono permettere. Non ce la fa a sorridere, è triste. Dice che la mia temperatura è di 36,7 gradi e che possiamo farci accompagnare al tavolo. Sì, siamo in due: tranquilli, lei ha fatto registrare alla fronte un agile 36,4 gradi. Prima di entrare nel terrazzo, dove già siedono 4 coppie di amici distribuite in 4 tavoli da 2, il nostro custode dice di aspettare un attimo per la sanificazione del tavolo. Intanto guardo il lago, lui sì che mi sembra sanissimo. Ci sediamo, togliamo le mascherine ma la fame è già fiaccata dal protocollo. Nell'attesa mi perdo ad osservare le persone mentre mangiano tutte storte e scomposte. Si scambiano i piatti allungando le braccia da un tavolo all'altro però hanno il culo distanziato di un metro. Mi scappa un sorriso amaro ma la gioia del convivio non c’è. Sono al cospetto di una mesta mensa dove alla fine non capisco se stanno meglio i missoltini che ci guardano dal piatto o noi diversamente vivi. Insieme al conto ci consegnano anche l’ultima pagina di mestizia: un foglietto su cui scrivere nome, cognome e numero di telefono. Vorresti dire che in quanto figlio di N.N. (Nuova Normalità) sei rimasto in attesa anche di una nuova identità. Ma adesso è tardi anche per chiacchierare. Si va via appoggiandosi alle spalle della notte, forse mano nella mano o forse tenendosi negli occhi.

30 maggio (Baci al buio)

Trovo davvero inquietante la leggerezza con cui la stampa sta trattando un argomento così sensibile come quello dei divieti che toccano anche le libertà più intime delle persone. In questi giorni, con l’atteso arrivo del 3 giugno, si sprecano titoli per ricordare che non tutto è ancora concesso. Un esempio significativo, anche per capire il linguaggio degli articoli, ma sarebbe meglio chiamarli guide comportamentali, è questo: “Niente baci e abbracci con chi non è «congiunto»: e anche con i parenti non conviventi (soprattutto anziani) vanno evitati i contatti fisici”. In altre parole, anche l’amore e gli affetti negati fanno parte di un freddo elenco che dice come ci si deve comportare al ristorante ma anche nel letto o in soggiorno con zia Rosina. Una lista della spesa dove baci e carezze hanno lo stesso peso di caffè e brioche. D'altronde, dopo aver subito la lezione di come ci si comporta a cena tra amici, non poteva mancare il postulato amoroso. Mettendo per un attimo da parte l’abbraccio tra parenti, vale la pena ricordare che dall'inizio di marzo la nascita di nuove relazione è di fatto vietata e lo sarà anche dopo il fatidico 3 giugno. A meno che la “nuova normalità” non preveda prolunghe di plastica, anche le nuove relazioni sono sospese a tempo indeterminato come la scuola o i giochi dei bambini al parco, sigillati come valige a Malpensa ma senza aerei da prendere.

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Se non trovate terribile che a un uomo o a una donna da tre mesi sia impedita la nascita di una relazione, forse gli effetti collaterali sono ancora più devastanti di quelli del virus stesso. Ma ancor più grave del provvedimento in sé è l’accettazione mediatica: un argomento di questa rilevanza umana è semplicemente inserito all'interno di un freddo decalogo di ordini e divieti: Vietato baciarsi se già non ci si baciava a febbraio. Potrebbero essere richiesti selfie per dimostrare l'amore prima del tempo del coronavirus. Non è questa la stagione per i nuovi amori. Eppure è primavera. Forse mai avremmo immaginato che l’inizio di una relazione o anche solo di una notte d’amore, avrebbe incontrato il cartello del divieto a tempo indeterminato. Insomma, qui si rischia che torni di moda quel vecchio adagio che ci “arruolava” all'amore solo quando eravamo “adulti e vaccinati”. Il punto per i single è che non basta essere adulti ma che il vaccino non c’è. E ho qualche dubbio che baci e abbracci, come li chiama il Corriere, potranno aspettare ancora molti mesi al buio.

29 maggio (Corri corri corri) 

Corri corri corri. Corri come quando eri bambino. Finché ti scoppiano il cuore e la milza. Lascia sul cuscino tutti i pensieri e pensa solo a correre. Lascia che ogni parola cada da sola dal letto ma tu inizia a correre. Devi correre veloce, più veloce di questa tempesta di lettere messe insieme solo per farti inciampare ogni volta che gambe e schiena rimangono senza curva. Esci prima che bussi ancora alla porta il plotone delle notizie senza sorriso. Chiudi gli occhi e non guardare la tempesta che spazza via come foglie d’autunno le truppe senza amore in spalla. Non ti voltare a controllare se hanno smesso di inseguirti con i loro megafoni. Ascolta solo il fischio del vento che sta guidando tutte le nuvole cariche di pioggia a spegnere il fuoco del terrore. E continua a correre più lontano che puoi. Lascia che sia il cielo a disperdere il contagio della paura. Corri fino al fiume, appena sotto la montagna, lì dove la vita non ha mai interrotto il suo corso. Piena di curve e ostacoli, di carezze e sogni infranti, di barche veloci e di barche naufragate. Di acqua che corre come sangue nelle vene per arrivare fino al mare.

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Lo vedi? Tutte quelle lettere non sanno nuotare. Le hanno messe insieme perché temono la vita: appena ne annusano il profumo provano a riorganizzarsi per formare nuove parole sempre più letali. Lottano una contro l’altra, si aggrappano alla riva ma hanno paura dell’acqua che ne ostacola il cammino leggero. Stanno perdendo potere, vinte dal fiume o dalla pioggia hanno finito i passi. Sono sparse ovunque, incapaci di riorganizzarsi. Ora sì che puoi smettere di correre. Puoi chinarti con le mani sulle ginocchia e alzare gli occhi a guardare il vento che se ne va. Resta fermo, annusa il sole. Prendi quella mano, stringila forte. Passerà questa notte senza pensieri. Ci sarà un alba senza parole cattive da raccogliere. Prendi quella mano e portala fino al mare.

29 maggio ( I can’t breathe)

“Non posso respirare”. Troppe volte lo abbiamo letto nei racconti di queste settimane, quando molte persone arrivavano in ospedale con poco ossigeno nei polmoni. Colpa di quel maledetto virus che ci ha letteralmente tolto il fiato. “Non posso respirare”. Ieri a togliere la vita a un altro uomo non è stato il virus. No, ieri a uccidere un uomo inerme a terra sono stati quattro vigliacchi armati. Quattro uomini che hanno usato la divisa come scudo delle loro misere vite. Quattro assassini di un uomo che aveva come unica colpa quella di essere nero. Non c’è una sola ragione per cui George Floyd dovesse finire immobile a terra con il collo compresso da un ginocchio più feroce di un mitra. “Non posso respirare”. Le sue suppliche, le sue parole soffocate non sono servite a nulla: il lupo affamato d’odio non ha allentato il morso dalla sua vittima. Nulla ha fatto desistere quel poliziotto che non conosce giustizia. Nulla ha smosso gli altri colleghi. La ferocia assassina di un uomo e l’indifferenza del branco hanno avuto il sopravvento sulla vita: quattro razzisti di Minneapolis hanno tolto a George il respiro fino a farlo morire con il volto schiacciato sull'asfalto. Dopo secoli di lotte, avere la pelle nera è ancora incredibilmente pericoloso. Ma non si pensi che sia un colore fatale solo in America. Non ce la si può cavare così. “Non posso respirare”. Non può farlo nessuno che abbia avuto il coraggio di guardare quel tragico video, che insieme alle sue terribili immagini ha spento anche l’ultima speranza di civiltà, anch'essa soffocata dalla ferocia di un uomo.

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Ma non c’è dubbio che i responsabili di questo nuovo omicidio di strada non siano solo quattro sgherri. Con loro sul banco degli imputati deve salire una classe politica che ha fatto dell’odio la sua bandiera. Sono i Trump, sono i populisti di tutto il mondo che non possono sentirsi innocenti dinanzi a un altro omicidio compiuto in nome di una propaganda che alimenta e giustifica violenza. “Non posso respirare”. Chissà cosa passava nella testa di quell'uomo, chissà quale proiettile razzista ha caricato il suo ginocchio mortale. Quella di ieri è una ferita all'umanità intera che van ben oltre Minneapolis, la città di Prince, un gigante di colore che abbiamo amato tutti. Forse anche l’assassino di George Floyd ha cantato almeno una volta una sua canzone. O forse no. “Non posso respirare”. Nessuno può respirare bene quando un uomo muore così. Ucciso non lontano da quella Chicago che è stata la culla di un documentario meraviglioso come The Last Dance. L’ultimo ballo di tre uomini di colore, Michael Jordan, Scottie Pippen e Dennis Rodman, guidati da un uomo bianco, Phil Jackson, che insieme hanno conquistato il mondo. “Non posso respirare”. Non posso farlo quando la bellezza di quei canestri e di quegli abbracci a colori viene stracciata da un minuto di inaudita ferocia bianca. I can’t breathe.

27 maggio (Italia Viva)

Sono mesi in cui si è sbagliato molto, anche solo con il pensiero. Ammettiamolo. Pentiamoci. Inginocchiamoci al cospetto dei giusti che in queste settimane hanno dispensato lezioni di un certo spessore morale. Impugnando la spada nera che ogni tanto torna a guidare l’uomo retto come un virus maidebellatoa, hanno mostrato ai deboli la retta via. Eppure dovrebbero sapere che non basta raccogliere rose o avere una donna da amare di nascosto per tenere a bada mani che hanno bisogno di stringere un nemico che non c’è. Perché poi accade che la morsa venga lasciata senza forza, spiazzata in cielo da una movida di stato che in un attimo ha riportato il paese alla sua abituale dimensione tricolore. È un’Italia Viva, verrebbe da dire citando l’insidiosa creatura di Renzi. Già il nome del soggetto politico è una lezione di involontaria ironia: è come se una mummia, in preda a un eccesso di entusiasmo, avesse deciso di chiamarsi Jerry Lee Lewis. Tuttavia anche ieri Matteo è riuscito a dare spettacolo dal museo egizio lanciando un doppio salvagente a Salvini e alla sua ciurma. Una giornata brillante in cui tutti hanno portato il proprio contributo. Tra i più luminosi si ricorda quello del sindaco Sala, salito in Duomo per immolarsi in un solitario saluto alle Frecce Trap che hanno inaugurato il nuovo "Farewall Covid Tour” facendo ballare in maschera mezzo paese.

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Non ci fosse Burioni, che ci riporta alla realtà con l’autorevolezza di Antonacci davanti a uno spartito di Bach, saremmo tutti distratti dalle scie tricolori. E invece non provate nemmeno a chiedervi se la mascherina sia davvero necessaria anche all'aperto, perché in un attimo si apre il cielo e il tornado Burion ti risucchia per consegnarti alla prigione dei No Mask, dove ti chiudono subito in cella insieme a un cazzo di terrapiattista con le foto di Brumotti appiccicate al muro. “Non vi bastavano i No Vax e i No Tav? Smettetela di dire no a tutto! Anche se in giro si sostiene che il virus abbia perso forza, che i medici stiano imparando a curarlo meglio, che Gallera si dimetterà, dovete imparare a dire solo sì e prepararvi alla seconda onda, perché il rischio che il virus scompaia non c'è”. Così abbassi il capo, fai un lungo sospiro insano sotto la mascherina e dopo avere cercato di aprire l’auto di un altro, perché con gli occhiali appannati non ci vedi un cazzo, torni a casa e ti fai uno shampoo. Che ogni tanto una lavata di capo te la puoi fare anche da solo. “In fondo non ci sono tanti modi di vivere, di organizzarsi la vita: si può vivere in uno, da soli, in due, la famosa coppia, o in tanti, le famiglie matriarcali, le comuni. Solo tre modi. Credevo di più".

26 maggio (Assembramento)

Ho così tanta inquietudine per la “Nuova Normalità” che mai come in questa stagione mi sono rifugiato negli anni dell’adolescenza. Ritornare a quel tempo aiuta ad allontanarsi almeno con il pensiero da questi giorni incerti. Tuttavia, questa mattina ho ripensato alle ultime volte che mi sono assembrato. Avete presente quelle situazioni in cui ti senti davvero un agone in scatola? Classici momenti di vita schiacciata, peraltro non tutti inevitabili. Il primo ricordo risale allo scorso gennaio, quando sono stato risucchiato all'interno di uno dei famigerati bus di Roma: dopo due curve, tre frenate e due fermate mi ha risputato dalla porta centrale come un hamburger dalla pressa. Miracolosamente con ancora indosso scarpe e cappotto, ho raccolto le ossa e mi sono spalmato in piazza San Pietro. Altri tempi, allora mica c’erano i McAssistenti Civici. A Bologna, dopo una sera a raccontare Dalla, Lolli e Guccini e per compensazione dopo una cena da Camera a Sud, io e la mia compagna siamo andati invece al mercato delle Erbe per il solito vino da Sara. Dimenticandoci però che il venerdì sera ci sono tre passaggi che non si possono superare senza anni di movida alle spalle: arrivare al bancone con ancora 20 euro in pugno; uscire dal locale con due bicchieri pieni in mano; portare alla bocca il succo di Bacco. Se siete arrivati alla fase tre, fate parte di quel genere umano, tipicamente notturno, che non ha certo tempo di lamentarsi del fatto che sta bevendo un bianco dopo avere chiesto un rosso. Cazzo, è comunque vino. D'altronde quando non c’erano gli Angeli della Movida mica stavi a far questioni.

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L’ultimo caso di avvicinamento sociale che ricordo ai bei tempi della “vecchia normalità” è quello al concerto di Kiwanuka a Milano: per muovere un braccio ho dovuto saltare sulla schiena di Vites dalla quale non mi sono più staccato fino a quando non mi ha consegnato come un pacco di Amazon nella zona confort dove ho cantato, birra in mano in segno di vittoria, Home Again con Enzo e Valentina. Ci fossero stati allora gli Assistenti al Rock col cazzo che finivo in groppa al povero pony Paolo, ah no! Potrei anche dirvi di quando la scorsa estate all'Isola del Giglio si difendeva con il sangue un metro quadrato di spiaggia conquistato all'alba con il sacro telo mare. Dovete sapere che le cavallette bianche arrivano tutte insieme, sbarcano ogni mattina d’estate con il traghetto Orca Lines delle 10: hanno in dotazione ombrelloni a punta, scudi gonfiabili e pesantissimi panini alla mortadella. Sono come un’armata Brancaleone però molto più organizzati. Soprattutto nella tecnica di accerchiamento: fanno ombra, estraggono bambini da ogni sacca e infine gonfiano a tutto polmone qualsiasi oggetto possa galleggiare. Hanno già vinto ancora prima di schiacciarti nella sabbia con i loro scarponi da scoglio o finirti a racchettate nei denti. Alle 10.10 ti ritiri su in collina e aspetti il traghetto delle 17, quello che riconsegna gli invasori al loro accampamento. Osservare la nave allontanarsi vento in poppa piena di puntini rossi, là dove il mare fa la curva, è un sollievo che dura fino al mattino. Ma è solo un brutto ricordo. Ora che ci sono i Beach Angels per i barbari la pacchia è finita. Ah sì!

24-25 maggio (Giuro)

C’è un tratto della riva orientale del lago di Como, quello che corre da Nesso a Lezzeno, che è di una bellezza incredibile. Strade strette scolpite nella montagna che non hanno ancora smesso di rubarmi gli occhi. Ogni volta che corro su quella strada, anche ieri che scappava dalla movida, mi fermo mille volte a fare foto e sospiri. Oppure a guardare l’altra sponda per dire: “Vedi, dietro quella montagna c’è il mio lago”. Sì, perché quando abitavo a Milano, il lago di Como era qualcosa che a malapena scorreva dal finestrino mentre raggiungevo la Valsolda da Milano. A Dasio, dove i miei nonni avevano una casa che un tempo era una locanda dove ogni tanto amava rifocillarsi anche Fogazzaro, ci passavo la prima parte dell’estate. Se a settembre pescavo muggini a Chiavari, se ad agosto erano porcini e Marta a Paneveggio, luglio era il mese dei persici del Ceresio. Io non ricordo come sia nata la mia fobica passione per la pesca, fatto sta che appena vedevo una pozza d’acqua volevo avere una canna in mano e una scatola di cagnotti in tasca. Quando non trovavo di meglio riempivo la vasca e facevo finta di pescare lì. Una volta mio padre dalla disperazione ci ha gettato dentro un cavedano. Giuro.

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A Dasio c'erano però un paio di problemi. Il primo era che per scendere a pescare a San Mamete al nonno toccava prendere l'auto tutti i giorni. Lo aiutava il fatto che per almeno mezza giornata i suoi amati fiori non sarebbero stati accarezzati dalle mie pallonate di cuoio. Era veramente l’unica cosa che lo faceva incazzare. Giuro. Anche perché tutte le volte che urlavo "palo di Mazzola!", sapeva che a salvare il Milan non era stato un legno ma una delle sue ortensie. L’altro problema erano i cagnotti. A nonna faceva veramente schifo vedere quella scatola viva nel frigorifero. Ogni tanto controllava che non andasse in giro, che non si muovesse dal suo ripiano. Mai avrebbe osato aprirla. Giuro. Non so cosa successe quel giorno, quale fiuto di donna la costrinse a sollevare il coperchio con i forellini per l’aria. So solo che la sentii urlare fino a Porlezza: i cagnotti erano diventati mosche e si erano messi a volare per tutto il frigorifero. Per qualche tempo quei teneri invertebrati che infilzavo all'amo con un certo mestiere furono banditi da casa. Fui costretto a cercare le mie esche vive in giardino. Ma vi assicuro che cacciare vermi e cavallette a luglio era un lavoro da grandi. Riconquistai il diritto al fresco per i miei cagnotti dopo giorni infiniti di ramazza e moine. E il primo persico fu per nonna Anita. Giuro. (Foto sopra m/p)

23 maggio (Doceacqua)

“Per chi ha il cuore a Levante, scrivere di Ponente è un po’ come se un’interista fosse costretto ad indossare la maglia rossonera”. Iniziavano più o meno così, cinque anni fa, le pagine di Vini e Vinili dedicate al Rossese di Antonio Perrino. Da allora sono cambiate molte cose e Dolceacqua è diventato un luogo dove andare a nutrire l’anima. Il primo a parlarmene con autentico trasporto - proprio mentre stappavamo una rara bottiglia di Dolcemagia del 2008 - è stato Luca Ghielmetti: un caro amico musicista e farmacista che ha nel sangue nerazzurro la musica di Tom Waits e il dono del racconto. Poi è successo che mi sono fermato una volta e molte altre ancora sapendo che non avrei mai più smesso di tornare a Dolceacqua. Basta una telefonata a Carol – una donna inglese che si è trasferita a viverci molti anni fa - per trovare alloggio in una delle tante case dei suoi amici britannici innamorati come Jack Bruce di questo angolo di terra che non conosce i passi veloci del tempo. Recentemente mi sono fermato a Dolceacqua di ritorno dalla Camargue e poi ancora sul finire della scorsa estate, chiamato dagli amici come Angelo e dalla nostalgia che ogni volta ti cattura.

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Dolceacqua è quell'ultima curva che ti allontana dal mare senza paura. Tornarci significa ritrovare l'incanto di un borgo che mi è entrato nel cuore con la stessa delicatezza delle forme sinuose del suo ponte dipinto da Monet. Ma soprattutto è l’occasione per incontrare ogni volta Nino e sua nipote Erica, per bere i loro vini in cantina o a casa. Qui ritrovo quel bicchiere colmo d’umanità di cui tutti abbiamo bisogno. C’è un insieme di piccole cose antiche che rende necessario ogni giorno trascorso a Dolceacqua: i vicoli stretti delle sue case che si abbracciano in salita, i suoi ritmi lenti, il suo silenzio spezzato solo dalle chiacchiere tra amici la sera, quando ci si riunisce intorno a una bottiglia di vino vero come il Testalonga. Un bianco vivo che ogni anno racconta del sole e della pioggia, del buono o cattivo tempo vissuto da questo entroterra ligure che ama restare nascosto. Un vino pieno di vita, che ha i segni profondi delle mani di Erica e Nino. A loro voglio ancora offrire una buona canzone da cantare tutti insieme come in Almost Famous. Solo che il nostro tour bus non ha ruote ma gradini, quelli in salita che ci separano da casa. Tiny Dancer di Elton John, da quell'album mai stanco di Madman Across the (Sweet)Water, è il brano perfetto per un altro giorno che se ne è andato. A Dolceacqua. Il primo posto dove tornerò appena si potrà andare oltre ogni ragione. Ops, regione. (Foto sopra m/p)

22 maggio (Sicuro)

Non ho mai smesso di considerare la Liguria come un luogo necessario, il più vicino al mare partendo da casa. Chiavari è quel posto dove due estati fa ho visto gli occhi azzurri di mio padre sorridere ancora. Chiavari è stata la mia seconda casa per molti anni, è stato il mare dove passavo pomeriggi interi a pescare muggini sugli scogli. Tornavo a casa correndo con la canna lunga in una mano e il secchiello con tanta acqua e pochi pesci nell’altra. Correvo e ridevo, ero felice perché il giorno dopo sapevo che ne avrei pescati molti di più. Sicuro. Mia nonna mi aspettava in cucina con la focaccia piena di fichi e uno sguardo chirurgico per verificare che fossi tutto intero. A lei i pesci non interessavano e poi anche nonna sapeva che domani sarebbe andata meglio. Sicuro. Quando partivamo per il mare ci portava sempre mio padre con la sua coupé verde che aveva l’acceleratore sensibile. Io e mio nonno, che era basso come me, stavamo schiacciati dietro, mia nonna era invece seduta davanti con mio padre. Lei odiava le gallerie e le curve della Serravalle. Ma soprattutto i camion: ogni volta che mio padre ne sorpassava uno, e succedeva spesso, si attaccava con due mani alla maniglia e urlava a suo figlio di andare piano che tanto il mare ci avrebbe aspettato. Ogni volta mi chiedevo se anche i pesci lo avrebbero fatto, visto che non ne prendevo mai uno. Porco diavolo, quest’anno ne pescherò tantissimi. Sicuro. Dai papà, schiaccia!

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Una mattina di settembre ha abboccato all’amo uno così grosso che mi tremavano le gambe. Era sicuramente un cefalo perché tirava fortissimo e la canna era tutta curva. C’era anche il signor Bossi che faceva il tifo per me e per il suo galleggiante. Diceva che dovevo avere pazienza e recuperare piano piano. Lui era un tipo strano che costruiva galleggianti nel suo garage a Milano. Faceva anche quelli lunghi e verdi per pescare al fiume e quelli piccoli e tondi per il lago. Io stavo ore a guardarlo per farmene regalare uno. Ma ora quel sughero con la testa rossa era in fondo al mare trascinato da un maledetto pesce che non ne voleva sapere di farsi catturare. Poi all’improvviso l’ho visto saltare due volte sul pelo dell’acqua prima che il filo di nylon si spezzasse. Era troppo grosso per i miei attrezzi da pescatore di saraghetti. Sì, ci sono rimasto male. Ma nemmeno tanto perché domani cambio lenza e non mi scappa più. Sicuro. Io non sono mica uno di quei mocciosi che va a fare il bagno al mare o sta in spiaggia a fare castelli. Io sono un pescatore. Qui lo sanno tutti. Quello che non sanno è che mia nonna ora si è inventata un’esca micidiale: una pastura fatta con il pane dei toast senza la crosta e con un po’ di formaggio: “Così ai pesci piace di più e vedrai domani quanti ne abboccano”. Sicuro. Appena si può uscire da questa maledetta regione io vado in Liguria. Sicuro. (Foto sopra m/p)

21 maggio (Le parole sono importanti)

Tra i frammenti che non dimenticheremo di questa lunga stagione “In & Out” ci saranno di sicuro gli slogan, le parole e il linguaggio che l’hanno accompagnata fin dal suo albore. Innanzitutto, al sorgere della pandemia, si è subito affiancata, su sfondo arcobaleno, la più scontata delle frasi consolatorie: “ANDRA’ TUTTO BENE”. Credo sia durata sui balconi giusto il tempo di un calzino steso al sole d'agosto o dell'attimo della prima apparizione di Fontana con il volto coperto come un bandito alla prima rapina. Capito che buttava male, il grido di resistenza che piaceva tanto a grandi e piccini è stato ritirato insieme al gemello diverso “SAREMO MIGLIORI”. Ma non c’è dubbio che la madre di tutti gli slogan resti la nera signora che in molti hanno ancora tatuata sulla pelle dei loro profili Facebook: “IO RESTO A CASA”. Ci hanno costruito intorno salvezza e perdono come fossimo dei mendicanti raccolti in strada, felici di essere chiusi in una grande e incontaminata chiesa pagana. Mentre sull’altare c’era chi ci dava NUMERI e CURVE quotidiane di questa GUERRA, là fuori correva veloce il RUNNER, altra parola abusata almeno quanto le imboscate che ha scatenato. Persino quel furfante del COVID-19, inutilmente inseguito dall’esercito più lento del mondo, i TAMPONI, continuava la sua inarrestabile corsa a riempire le TERAPIE INTENSIVE, inferno evocato a tutte le percorelle smarrite alla ricerca di un po' di luce.

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Senza un dio, ma con tanti VIROLOGI più sculettanti delle ballerine di Colpo Grosso, ci siamo trovati con le caviglie strette dalla FASE 1 e i polsi legati dall‘AUTOCERTIFICAZIONE, il passaporto del LOCKDOWN. “Le parole sono importanti”, diceva Nanni Moretti. E allora usiamole, deve aver pensato qualcuno che non ha mai visto Palombella rossa e forse nemmeno Bianca, altrimenti avrebbe iniziato dalle scarpe e non dalla MASCHERINA che lo Zinga dice diventerà di moda come le espadrillas negli anni ‘80. Va bene, era solo un gioco di parole per citare due film da cineteca del secolo che fu. Andiamo avanti, senza nemmeno soffermarci troppo sui DRONI e su tutta l’artiglieria messa in campo per catturare gli stragisti della fughetta. La FASE 2, che si pensava potesse allentare la tensione verbale, paradossalmente l’ha invece aumentata. Non solo l’elenco di ciò che è VIETATO VIETATO VIETATO si è consumato poco, ma ci ha persino consegnato l’uso di nuovi avvertimenti. Da qualche giorno tuona infatti sulle nostre teste senza ombrello la suprema minaccia dei Signori del Lucchetto: “RICHIUDIAMO TUTTO”. Pioggia e grandine sugli ASSEMBRAMENTI, fulmini e saette sulla MOVIDA. D’altronde se non lo avete ancora capito, e qui arriva il sigillo linguistico, questa è la NUOVA NORMALITA’, dove la LIBERTA’ si riconquistare solo rigando dritti. L’orrore e il DISTANZIAMENTO SOCIALE siano con voi, peccatori! (Foto sopra m/p)

20 maggio (Il complotto)

Ma cosa ci faccio legato alla sedia? Ma dove cazzo mi avete portato? Perché indossate le tute bianche? E il cappello nero? E la maschera di Arcuri? No, no, no! La grande A tatuata sul polso non è l’iniziale di anarchia ma di Alice, mia figlia. E quella piccola C velata dal tempo non vuol dire complottista. È solo l’iniziale di Camilla, una mia ex fidanzata che era pure un po’ stronza. L’ho tenuta incisa sul braccio per non dimenticare. Giuro che ByoBlu l’ho visto solo una volta ma fossi in voi mi preoccuperei più di Burioni e Del Debbio. E va bene, ho guardato Report e la Gabanelli. Però devo anche confessare di essere nuovamente d’accordo con Gramellini, è la seconda volta che mi succede e sono preoccupato. Ehi fermatevi, cosa fate con quell’ago! Le vaccinazioni io e i miei congiunti le abbiamo già fatte tutte. Per un nuovo vaccino mi sembra un filino presto. Ah, non è il vaccino? Allora si può sapere cosa cazzo mi state iniettando? Sarà mica il sangue di Gallera, eh? Comunque ve l’ho già detto: non ho mai pensato che la terra fosse piatta e quando ho pubblicato la foto delle scie chimiche stavo scherzando, erano solo nuvole bizzarre emesse dal cielo. Che cazzo dai, delle Torri Gemelle ormai lo sanno tutti.

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Ma volete davvero tenermi qui solo perché ho qualche perplessità sul pipistrello e il pangolino? Non è mica una favola di Gianni Rodari, anche se a volte mi sento Gelsomino nel paese dei bugiardi. In fin dei conti faccio solo domande, offro il dubbio con un bicchiere di rosso in mano come quando c’era il pensiero. Non vorrete mica arrestarmi per la musica e il vino, vero? Io sto sempre in casa, esco poco. Penso solo e sto in mutande. Esattamente come mi avete trovato. Vi siete almeno accorti che ho citato Gaber, De André e Dalla? Ho capito che qui le domande le fate voi. Renzi? Ma cosa c’entra ora Renzi? Certo che l’ho votato, ma quella volta ci siamo cascati tutti, dai! No, non mi fregate, delle sardine non parlo. Che poi non son tempi per stare così vicini. Ora posso andare? Sono due ore che mi fate ruotare nel vostro cerchio del cazzo. Guardate che quella del 5G che propaga il virus lo so anche io che è una puttanata. Sono quelle cazzate che si diffondono per contaminare qualsiasi notizia che non abbia il timbro del racconto ufficiale, questo però lo penso ma col cazzo che ve lo dico. Ma sì, certo che ci siamo andati sulla luna, anche se la spedizione più bella è stata Apollo 13. Ora avete finito gli argomenti e mi date del populista? Col cazzo! E quella siringa infilatevela nel vostro di culo. Che io quando mi sveglio voglio andare avanti ad ascoltare Disperato erotico stomp. (Foto sopra Archivio)

19 maggio (Tiro da 3)

Ieri non l’ho detto ma nel pomeriggio sono andato a comprare anche un nuovo pallone da basket. Mentre voi ve la davate a gambe là fuori, io durante il lockdown ho consumato le mie All Star con una palla lacera e un canestro posticcio parcheggiato in un fazzoletto di giardino. Nelle giornate migliori sono arrivato a tirare da 3 in sospensione (5 centimetri da terra) con un discreto 50%. Pur non avendoci mai giocato seriamente, colpa della scherma e del calcio, sono nato come ogni milanese che si rispetti con il mito delle scarpette rosse nel sangue. Ad accendere il fuoco sono stati Dan Peterson e Mike D’Antoni: dalla Banda Bassotti fino agli anni di Bob McAdoo è stata una cavalcata trionfale. Dieci anni durante i quali dentro e fuori dal parquet tutti abbiamo “sputato sangue”. Basterebbe ricordare la rimonta storica del 1986 con l’Aris Salonicco di Nikos Galis. Quella volta sì che al PalaTrussardi abbiamo giocato anche noi e siamo stati il sesto uomo in campo dell’unica squadra NBA che vinceva in Europa. Erano gli anni dell’immenso Dino Meneghin, di Vittorio Gallinari che non segnava mai ma che in difesa era dio. Erano gli anni di Oscar Eleni, di Tullio Lauro, dei Giganti del Basket e de La Notte, il quotidiano del pomeriggio che aveva più tempo per raccontare le nostre imprese. 

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Ma era anche la stagione di Magic Johnson e Larry Bird. La prima volta che volo a Los Angeles è il 1988, l’anno del quinto e ultimo titolo gialloviola di quel decennio dominato dai Lakers e dai Celtics. Quando quell’agosto entro al Forum, dove il giorno dopo suonerà Rod Stewart, ho un nodo in gola. Nonostante sia deserto, mi sembra di vedere Kareem Abdul-Jabbar alzarsi in volo con quel suo braccio che non finisce mai. Nel pomeriggio sono a Laguna Beach per uno dei playgrond in riva all’oceano più intensi del mondo. Ci sono in giro bionde che bruciano come il sole ma quel campetto sotto il cielo blu spegne ogni altro ardore. Poi succede che troppi campioni smettono insieme e che il nostalgico, a cui non basta nemmeno Michael Jordan per ritrovare la stesse emozioni di un tempo, si spegne con Montecchi. Ma la palla a spicchi che riempie il canestro alla fine ha continuato a rapirmi e a scottarmi in mano: prima Steve Nash e Mike D’Antoni, poi James Harden e Mike D’Antoni hanno riacceso la fiamma. Senza essere davvero tifoso dei Phoenix Suns o degli Houston Rockets, sono rimasto fedele ai gesti di cui mi ero innamorato: l’assist, il tiro morbido, il genio, la classe del playmaker. La pallacanestro senza i suoi registi sarebbe come il calcio senza Pelè. Ci scriverei un libro sui miei anni ’80 a canestro, sulla difesa a 3 o l’attacco a L, su quel posto ai Navigli dove cenavo insieme ai giganti. Ma ora ho voglia di ascoltare Pacific Ocean Blue di Denis Wilson e devo ancora finire The Last Dance. (Foto sopra m/p)

17-18 maggio (Le mutande)

Dopo una domenica passata a respirare il lago, ancora deserto e silenzioso, con un cielo macchiato da grandi e agili nuvole bianche, spinto più dalla curiosità che dalla necessità, ho deciso di spendere il mio black monday in città. D'altronde, dopo oltre due mesi di consumi in casa, qualche urgenza andava sedata. Così, per la prima volta da febbraio, sono entrato in un negozio. Prova febbre superata, proseguo. Non faccio in tempo a fare dieci passi che un addetto mi blocca con un braccio lungo un metro e una voce scura: “I guanti!”. Poi si rivolge al collega alla porta e gli urla: “Devi far mettere i guanti a tutti!”. Torno indietro e il signore del protocollo mi fornisce due sacchetti rettangolari trasparenti con la sagoma dei guanti stampata sopra. Li indosso con le mani che sembrano due bistecche pronte per il surgelatore. Ne perdo uno mentre salgo la scala mobile e alla fine esco dal negozio tenendo stretti tra le dita nude un paio di jeans che non ho potuto nemmeno provare perché i camerini sono stati aboliti. Dopo solo dieci minuti ho già in bocca quel gustoso sapore della vita che vivremo nei prossimi mesi. Andiamo avanti. Fa caldo e con la mascherina da saldatore non riesco a respirare, così ne acquisto una in farmacia (modello ffp2) al modico prezzo di 9 euro. I negozi sono quasi tutti aperti. Con stupore noto molte persone sedute ai tavolini dei bar.

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Sembrano tutti attenti alle regole scritte per questa seconda e temuta versione della fase 2: nonostante la paura diffusa, la voglia di tornare a vivere sembra avere avuto il sopravvento. Si dice, ed è vero, che ci fosse la necessità di far ripartire l’economia. Tuttavia non si è detto quanto fosse indispensabile anche la ripresa della socialità, seppure sia da vivere con la difficoltà di quei cento centimetri di distanza da un abbraccio. Ma oggi è un giorno di gioia, preso per mano da un sole generoso e meno prudente di noi che ha voluto scaldare questi primi passi senza guardie alle spalle. Sono talmente emozionato che mi do alla pazza gioia per le vie del centro. Persino io che più dello shopping odio solo le passeggiate. Entro da Tezenis e acquisto quattro paia di mutande, tutte blu. La commessa mi chiede se ai boxer voglio abbinare le t-shirt stretch, sempre blu. Io come sempre le dico di no. Ma poi ci ripenso: “Sì, me le dia”.  Che cazzo, è il primo giorno e oggi voglio avere le mani e i guanti bucati. Salgo in auto e alla fine ascolto Neil Young. Dice che la porta è aperta, che l’attesa è finita. Che nessun uomo vede dietro l’angolo, ma che è meglio aver cura e provarci. Dice che gli piacerebbe rischiare, ma che non sa ballare. Merda. Non ti far suggestionare, è solo una canzone d’amore. (Foto sopra m/p)

16 maggio (Il persico)

Un metro. Distanti un metro. Tutto (o quasi) riparte con cento centimetri di separazione. Là fuori, tra gli esseri umani che non vivono insieme, è la regola. Si ricomincia a vivere facendo del distanziamento fisico il manifesto della "Nuova Normalità", così come piace chiamarla a chi ne ha scritto le regole. Che poi sarà anche nuova ma di normale non ha proprio nulla. Anche se non manca chi pensa che un metro sia troppo poco e che tutto sommato sia più prudente restare ancora chiusi in casa. Forse sono persone che anche prima non uscivano quasi mai o forse il megafono della paura ha fatto il suo effetto. L’altro giorno al supermercato ho incontrato un amico, eravamo bardati come due vecchi rapinatori della Bovisa con la nostalgia per il colpetto alla cassa. Lo scorgo tra le bottiglie dell’acqua, mi avvicino ma non troppo: ci scambiamo a distanza di sicurezza un sorriso e due parole mascherate. Mi avvicino ancora un po’. Con i piedi ben piantati a terra protendo il corpo, il braccio e il guanto verso di lui; lui si irrigidisce ma io non mi arrendo e alla fine con un ultimo allungo conquisto il suo guanto riluttante. La sua paura di stringere un’altra mano con il guanto mi ha fatto paura. Già è un affetto protetto dalla plastica che si è fatta un giro nel gel disinfettante, ma almeno c’è l’intento. Invece si ha persino paura di due guanti che si incontrano, di una stretta di mano sterilizzata.

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Cosa ci volete fare, io e la “nuova normalità” non riusciamo proprio a convivere. Mi sento come un delfino che nuotava libero nell’oceano e all’improvviso si è trovato a SeaWorld a San Diego. Va bene, mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo: mi sento come un agone che nuotava libero nel lago e all’improvviso si è trovato nella vasca dei pesci rossi. L’agone ha l’occhio incazzoso, la coda che sbatte sul vetro ma non punge. Se lo metti in scatola ha bisogno di stare schiacciato insieme agli altri agoni. È buono ma non è mica tenero come un tonno che in scatola ci sta da solo e pure a pezzi. Insomma, quest’idea di dividerci per riconsegnarci ammaestrati a un nuovo mondo che sta già scommettendo su una fase quattro sempre più smart, dove naturalmente smart non è da leggersi come intelligente per noi ma per loro che stanno provando a farci vivere divisi e felici. Guardate che vi sento ridere per le povere parole sognate da un pesce. E forse avete ragione voi che vi sentite leoni ma vi fate accarezzare dal domatore. Ci vediamo in giro, figli della Nuova Normalità. Figli di NN. (Foto sopra (m/p)

15 maggio (Farfalle e cavallette)

Siamo a metà maggio, un altro mese, il terzo, sta volando sulle nostre teste rapito dall'astronave della propaganda. È quella di una regione che continua non solo a proclamarsi innocente ma persino a sostenersi virtuosa. Occorre una buona dose di coraggio, quella che appartiene solo al costume della peggiore politica, per non avere nemmeno la decenza di fare un passo indietro e mettersi almeno in discussione. Credo sia arrivato il momento di dare ordine ai numeri per provare a capire quante persone sono state uccise dal virus e quante invece da un sistema sanitario che si credeva invincibile. Non è un'affermazione provocatoria ma una questione rispetto alla quale non ci si può sottrarre se si vuole arrivare alla radice del problema che ha portato la Lombardia a questa drammatica situazione. Mentre là fuori si inseguiva chiunque cercasse un respiro, mentre le persone morivano in casa, nelle case di cura, negli ospedali, da quel palazzo di vetro abbiamo sentito provenire solo rimproveri e mai un mea culpa. Senza provare vergogna, hanno comprato pagine di giornale per raccontare al mondo che ci hanno salvato il culo. Hanno avuto l’ardire di cercare l’applauso e non sentendolo arrivare se lo sono fatto da soli senza nemmeno arrossire. Con una mano hanno retto il sistema sventolandolo come un modello, con l’altra hanno puntato l'indice per fare la morale a tutti.

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Si sono sempre assolti distribuendo le colpe a chiunque: ai cittadini che non stanno a casa, alla polizia che non fa i controlli, al governo che non dà indicazioni, alla Cina che non ci ha avvisati, al sindaco Sala che è comunista. Le cavallette! Mai un volta che gli fosse venuto in mente di rivedere il proprio approccio alla pandemia, mai un dubbio sulla gestione di una sanità razziata dalle sue funzioni territoriali e divenuta complice della strage in corso. È la politica della menzogna che si nutre di uomini fedeli in casa e di fan in piazza: tutti vaccinati contro il virale pericolo della verità. La sera si spacciano per soldati in missione per conto di dio, mostrando il crocefisso come amuleto dell’opportunismo, di giorno distribuiscono il loro panino quotidiano farcito di nuove bugie e di vecchio cinismo. Chi ha sempre rifiutato questo cibo si sente impotente, frustato, prigioniero delle proprie illusioni. Si sente come una farfalla che sbatte le ali sul vetro di una finestra. Sì, è andato tutto male. Ma c'è ancora chi non si è arreso e chiede che ora a casa ci stiate voi. È la voce composta di chi ha visto troppi occhi chiudersi per sempre e si è sentito tradito. Fino a quando farete finta di non sentirla? (Foto sopra Archivio)

Provate a librarvi in volo con una mongolfiera. Li vedete laggiù quei lupi affamati che cercano briciole di verità da oltre due mesi? Stringono tra i denti notizie che non sanno se masticare o sputare, si guardano intorno con occhi impauriti. Quei lupi solitari siamo noi. Lupi diffidenti nutriti a suon di neri pipistrelli e squamosi pangolini acquistati al mercato, unico cibo ufficialmente ammesso alla mensa dell'informazione. Proibito anche solo ammusare qualsiasi altra ricetta cucinata a oriente con le spezie d'occidente. Distanziati fisicamente ma guai ad uscire dal branco con l’osso in bocca o anche solo col pensiero in testa. Esiste un menù ufficiale, cercare altri piatti da mettere in tavola fa male alla pancia ma anche al cervello. Eppure come dessert a questo pranzo indigesto si offrono regole che nella loro estensione mediatica danneggiano l’intestino. Leggere che è vietato prendere il sole o che una coppia è stata multata perché sorpresa a baciarsi dal solerte puritano di turno che ha prontamente chiamato la polizia, non fa meno male del virus.

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Così come le squadre anti assembramento, invocate da un assessore regionale, che dovrebbero farci ululare di rabbia per come ci è stato riempita la scodella di insicurezza con il solo scopo di agitare il fucile della propaganda sulle nostre teste. È la lucida follia di chi prende la mira sulla docile colonia senza cercare le iene nel proprio recinto, magari in fiera a Milano dove qualcuno ha provato a spacciare un aeroplano di cartone per un'astronave mai decollata per lo spazio. Se mai avessimo avuto bisogno di altre prove, ore le abbiamo: il vestito che ci hanno cucito sulla pelle si è strappato e non basterà ricucirlo: mai come ora sanità, informazione, politica ed economia hanno dimostrato di avere fallito ovunque. Non sarà per nulla facile trovare un’alternativa a un sistema che proprio in questa stagione ha evidenzaito quale controllo, fisico e mentale, può esercitare su di noi. Ma occorre farlo prima che i lupi trasformino in rabbia il dolore delle loro ferite. Ora è il momento di muoversi dalla regione alla ragione. (Foto sopra Archivio)

13 maggio (Il meteo)

Dopo due giorni di pioggia, che per un metereopatico iniziano ad essere un problema, non ho resistito e ho dato una sbirciata alle previsioni del tempo. Non lo facevo credo dal mese di febbraio: un po’ perché c’è sempre stato il sole, un po’ perché non avevo in programma viaggi. E nemmeno passeggiate. Così, temendo di non ricavarne il conforto cercato, ho aperto con una certa apprensione l’app del meteo. Il ministro dei temporali, al fine di evitare assembramenti zoom zoom, aveva infatti appena decretato altri giorni di pioggia preventiva. Nella spasmodica ricerca di qualche notizia più confortante almeno per la prossima settimane mi sono accorto che il linguaggio da tregenda utilizzato abitualmente dal canale meteo più gettonato d’Italia - quello che trasforma la pioggia in bomba d’acqua, le pozzanghere in fiumi, i temporali in violenti tsunami del cielo, le correnti in sciabolate artiche e il caldo in lingue di fuoco africano - era stato declinato al racconto delle previsioni del contagio da coranavirus.

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In arrivo abbiamo infatti le terribili seconde ondate di Codiv-19, previste per i prossimi mesi con la stessa facilità con cui si prevede una primavera bollente o un autunno gelato. Non sembrava vero ai “giornalisti” del meteo, abituati ad un linguaggio “terroristico”, che qualcuno si fosse impossessato di una narrazione per la quale pensavano di avere il copyright. E allora, visto che pioggia o sole, anche in chiave catastrofistica al momento interessano poco a chi sta a casa, hanno pensato bene di mettersi a prevedere l’andamento del contagio raccogliendo il peggio che si trova in rete tra la varie testate quotidiane. Giocare con la nostra estate si è così trasformato in un esercizio di stile bombarolo davvero inquietante, dove l’azzardo di una sciagura ha lo stesso valore di un fortunale. Perché finché giochi coi nostri ombrelli puoi anche dire che ti sei sbagliato, che in fondo basta un soffio d’aria a riaccendere il sole;  ma quando scherzi sulla pelle della gente, configurando nuovi orizzonti pandemici, chi gli restituisce il coraggio per la vita quando hai seminato terrore come grandine? (Foto sopra m/p)

12 maggio (Dear friend)

Giusto un anno fa debuttava al Salone del Libro di Torino Vini e Vinili Gaber & Champagne. L’ultima tappa di un lungo viaggio concluso tra le vigne francesi e le canzoni d’autore italiane. Tuttavia non è del saggio che voglio parlare ma della persona che lo ha scritto con me, Dan Lerner. Tra le tante limitazioni che ci sono state imposte in questi mesi di pandemia, una delle più difficili da accettare è stata quella di dover rinunciare agli amici. A gente come me e Dan nemmeno viene in mente di videochiamarci: noi abbiamo bisogno di carezze e calici, di Milano e dei suoi locali, dei nostri passi incerti al ritorno; per noi il distanziamento fisico è un’autentica violenza. Uno spiraglio si era aperto nel giorno dei congiunti ma la speranza è durata giusto il tempo di un’apparizione in tv del ministro dei temporali. Nel frattempo, da quell’ultima cena da Ciotto a Milano, bevendo i vini buoni di Nadia Verrua e Francesco  Maria De Franco, sono passati tre mesi. Sembra il ricordo di un altro mondo, di quando si mangiava gomito a gomito e i bicchieri suonavano vicini come i violini di un’orchestra. Ma quello nuovo che qualcuno sta progettando per noi sembra costruito per governare robot e non gente che trascina di notte un'anima e un cuore. Non ci arrenderemo facilmente, non siamo uomini destinati alla ruggine.  

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Ho conosciuto Dan qualche anno fa durante la presentazione dei miei primi e solitari 33 giri di rosso. Eravamo così stretti dentro Vinoir ai Navigli che qualcuno è dovuto uscire. Da quel giorno è nata un’amicizia importante, che passo dopo passo, lezione dopo lezione (Dan è un maestro della parola), bottiglia dopo bottiglia, curva dopo curva (le mie e le sue) mi ha portato a chiedergli di scrivere un libro insieme. Siamo partiti e siamo arrivati alla fine senza mai sbandare. Dan correva tra le strade del buon vino francese, io tra quelle della buona musica italiana. Poi come sempre ci siamo trovati a Milano e abbiamo messo insieme i nostri racconti, un grande abbraccio e le tre parole di Dan che mi suonano sempre in testa: “Eccoti, amico caro”. Adesso che ci penso, una volta siamo anche finiti in un fosso. È stato il giorno in cui mi sono accorto che a Mauro Ermanno Giovanardi Dan non aveva versato del vino ma una spremuta di pere. «Ma che cazzo, la nostra generazione è mica fatta di gente che beve succhini». Ovviamente aveva ragione Dan, perché il Poiré Granit è un superbo nettare prodotto da un mago dei sidri come Eric Bordolet. A proposito, amico mio: metti una bottiglia in fresco che ci stappiamo di dosso questo maledetto lockdown. (Foto sopra m/p)

11 maggio (Key West)

Sono settimane difficili per tutti. Il confronto è impegnativo, a volte impossibile. Ci sta, fa parte del gioco. Non avevo però messo in conto di dover spiegare tutte le volte, perché c’è sempre qualcuno che non capisce, o preferisce non capire, che non ho mai scritto nulla per rivendicare qualcosa per me. Non sono un Bambino, non vado a Scuola, non sono ancora Vecchio. Non ho nemmeno un Bar. Non vendo Vino. Non vado in Chiesa. Non sono stato inseguito dai Droni ma non ho nemmeno chiuso il cervello nel plexiglas. Eppure sono stato accusato di aver fatto alcune riflessioni solo perché il virus e la morte non mi hanno toccato da vicino. Sarebbe persino inutile affermare che è una sciocchezza. Peraltro con la morte ci convivo ogni giorno da quando non avevo nemmeno 10 anni e mia madre morì di cancro, quella malattia che allora era quasi sempre incurabile. Di più, io sono figlio della morte, visto che sono nato un anno dopo quel fratello che ha visto solo un giorno di luce. Se lui fosse sopravvissuto a un forcipe assassino, io non sarei qui. Ma andiamo avanti. Lo dico a bassa voce per non finire nuovamente sbranato. Vige una sola narrazione: di coronavirus si muore. Ed è vero. Stiamo attenti, cerchiamo di essere migliori di chi ci ha governato in Lombardia.

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Ma iniziamo a dire, per favore, che di covid si guarisce, succede alla stragrande maggioranza delle persone. E smettiamola di farci condizionare ogni sospiro e di cercare sempre un colpevole tra gli innocenti. Se siete proprio alla ricerca di un nemico, cercate di mirare almeno nella giusta direzione. Ma non dimenticatevi che a salvarci non saranno i fucili ma il pensiero. Che non può essere unico come vorrebbe qualcuno ma aperto al dubbio senza essere divorato dalla certezza. E infine mi chiedo ancora se ci sia davvero sempre bisogno di giustificare o spiegare tutto. E la risposta, purtroppo, è sì: altrimenti il ritorno alla vita di Silvia Romano avrebbe dovuto portare con sé solo gioia e commozione. Come succede quando una figlia, una sorella, un'amica ritornano a casa. Invece ho letto parole di una barbarie senza precedenti, rivolte ancora una volta a una giovane donna. A voi che siete arrivati fin qui, alle tante belle persone incontrate, che siete maggioranza e bellezza, dico grazie. Ma vorrei anche dirvi, semmai dovessi morire oggi, che come epitaffio vorrei lo stesso che trovai inciso su una lapide del cimitero di Key West: “Ve lo avevo detto che ero malato”. (Foto sopra Web)

9 maggio (Ritorno al lago)

Era dai primi giorni di marzo, quando il virus non mi aveva ancora chiuso in casa, che non tornavo al lago. Allora ero stato ad Argegno, in una di quelle giornate di fine inverno in cui il sole inizia a far sentire il suo calore. Già si respirava un clima di insicurezza, il presagio incombeva e mi sentivo bussare alle spalle dalla colpa di essere ancora fuori. Guardavo il lago di Como dalla sponda di Argegno, era scuro ed agitato, ancora incosciente della quiete che l'avrebbe travolto. Ora, dopo due mesi che nessuna barca lo ferisce, e che nei giorni senza vento sembra liscio come uno specchio, oggi ho ritrovato il lago più bello che mai, curato da questo tempo vissuto senza l’uomo. Ho risalito la mia strada preferita, quella che dalla città porta a Bellagio: la conosco a memoria, curva dopo curva, per i miei 10 anni di vita a Torno. Credo di non aver mai visto questa strada così deserta, di certo mai in un sabato di sole che ha gli stessi colori dell’estate. Careno è un piccolo paesino che scende fino al lago con le sue stradine strette strette e le case tutte appiccicate una all’altra. A Careno c’è la migliore trattoria del lago, ci vengo da trent’anni e per la prima volta l’ho vista chiusa, senza l’Antonio che ti accoglie con il suo sorriso e le chiavi della chiesa romanica. Riaprirà presto. E anche quest’anno lotterò per il mio tavolo all’angolo.

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C’è un po’ di vento da sud che spazza le nuvole e il lago fa tutte quelle ondine che lo fanno un po’ riccio. Guardarlo riporta vita agli occhi, ti riempie la vista con tutta quell’acqua dolce che solo le montagne possono abbracciare così stretta. Un pescatore solitario trascina piano la sua tirlindana stanca, è un uomo anziano che sembra sfidare il lago più per abitudine che per necessità. Però oggi si respira e si sorride un po’. Non si incontra quasi nessuno ma si percepisce ugualmente l’umana urgenza di tornare a vivere caricando in spalla le sue bricolle piene di affanni quotidiani. Si riaprono le finestre, si sentono voci. Si scorgono mascherine. Qualcuno le porta con vergogna, qualcuno al collo. Altri su un orecchio. Pronte all'incontro. Qualcuno si schiaccia al muro per mantenere le distanze. È tutto così ancora surreale da sembrare più buffo che serio. D’altronde lui, il nemico, si chiama Covid-19: sembra più il nome del software di un vecchio Commodore che quello in codice di un pericoloso ricercato dalle polizie di tutto il mondo. Non eravamo stati programmati per combatterlo. E quando ci hanno provato forse era già troppo tardi. (Foto sopra m/p)

8 maggio (Navigli)

Ma davvero si può imporre per legge un comportamento antisociale tra le persone? Oppure è sbagliata la forma e si dovrebbe più opportunamente parlare di distanziamento fisico? La sostanza non cambia, di fatto, come unica soluzione alla pandemia, ci è stato chiesto di abbandonare sine die uno dei comportamenti che da sempre fa parte della vita dell’uomo: stare insieme. Al lavoro, in famiglia, con gli amici, con i propri affetti, con la gente che incontri. La dimostrazione che “abbracciarsi” ci viene più naturale persino della paura, lo dice il fatto che appena la corda si è allentata ci siamo messi di nuovo insieme. Nel farlo alcuni non hanno rispettato le distanze imposte, altri si sono assembrati in gruppi fuori misura, altri ancora si sono dimenticati le mascherine. Emblematico il caso del Navigli a Milano, enfatizzato dagli articoli dei maggiori quotidiani. Il caso, reso in parte strumentale dalle foto scattate con potenti teleobiettivi, ha subito scatenato un animato dibattito sui social oltre alla reprimenda del sindaco Sala. Ora, occorre sempre ribadirlo, voglio ricordare che non sono qui per provare a dire  cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, ma semplicemente per ricordare che spesso si agisce più per istinto che per voglia di infrangere una regola.

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Si dirà che gli istinti, siccome non siamo bestie si possono anche controllare, ed è vero. Soprattutto quando i nostri comportamenti potrebbero mettere in pericolo gli altri. Fatta questa debita premessa, mi viene spontanea una domanda: ma come si può pensare che abitudini secolari possano essere globalmente sospese all’improvviso? Con un decreto legge, con le multe, con il buonsenso, con la bacchetta magica. Idealmente sì. Ma nella pratica non può succedere. O meglio, nella pratica succede che alcuni dimentichino le regole e non avendo il morso in bocca ritornino a fare quello che hanno sempre fatto. Possiamo strapparci i capelli, condannarli e multarli, o pensare che siano tutti solo strafottenti ma succederà ancora. Dopo i runner, dopo le mamme con i bambini, dopo le fughe in spiaggia, ora è il momento dei signori della birretta. Eppure il vento di morte che è soffiato e che ancora ci scuote, non è attribuibile a nessuna di queste categorie. Distrarci dalla realtà, inseguendo i solisti fantasmi, facendo la morale ai falsi cattivi, non ci aiuterà ad uscire da questa pandemia che almeno in Lombardia vede qualcuno a palazzo più colpevole di altri. Come abbiamo riposto da tempo il pensiero che sarebbe andato tutto bene, abbiamo anche capito presto che non ne saremmo usciti nemmeno migliori. (Foto sopra Today)

7 maggio (On the road)

Ieri mi sono ritrovato all'improvviso insieme a mio fratello sul sedile posteriore del coupé verde di mio padre. Ricordo esattamente anche il tratto di strada che ci stava scappando sotto le ruote: era quello che unisce il lago di Como al lago di Lugano, quella striscia d’asfalto che sale da Menaggio a Porlezza. Io avrò avuto 12 anni e stavamo andando a Dasio dai miei nonni, nel giardino dove avevo la scrivania più bella del mondo. Era una bella giornata di sole, le casse dell’auto suonavano loro malgrado le canzoni dei Vianella. Per chi non conosce l'inizio, questa storia potrebbe sembrare anche molto imbarazzante. E in effetti un po’ lo è. Intanto provate a mettervi nei panni di una giovane autostoppista che sta per essere caricata a bordo di un’auto guidata da un uomo in preda alle convulsioni canore di "Semo gente de borgata". Mio padre ha abbassato il finestrino tutto fiero del suo pulsante elettrico, la ragazza ha messo la testa dentro il coupè, ha guardato il conducente e infine le povere creature che spuntavano appena dai sedili posteriori. Ha esitato giusto un attimo, poi ha aperto la portiera e si è messa a sedere sul sedile anteriore accanto a mio padre con lo sguardo di chi ha pensato che nostra madre fosse scappata di casa per sempre. In realtà non si sbagliava di molto, il babbo era vedovo.

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Però a quel tempo una donna romana, giovane, bella, bionda e persino simpatica, lo aveva appena riportato in vita. E lui, già figlio di quella meravigliosa donna romana che era mia nonna, in preda ai fumi del ritrovato amore si era dato a qualsiasi canto che avesse anche solo un vago accento della capitale, Gabriella Ferri compresa. Prima di scendere, la ragazza del pollice aveva già imparato il ritornello: "Core mio, core mio, la speranza nun costa niente, quanta gente c'ha tanti soldi e l'amore no, e stamo mejo noi che nun magnamo mai”. Peccato che appena chiusa la portiera dell'auto ci abbia voltato le spalle per sempre. Peccato perché avevamo proprio bisogno di una bella voce femminile. Pazienza. Intanto noi siamo arrivati a Dasio. Mio padre ci ha fatto scendere e poi credo sia tornato al Colosseo, dove avevo anche un po’ paura che non avesse niente da mangiare. Qualche tempo dopo qualcosa deve essere andato veramente storto perché un giorno ho trovato nella pattumiera la cassetta dei Vianella con tutto il nastro avvolto intorno. E noi siamo prudentemente tornati a Gianni Morandi e alla bella Belinda che è innamorata e parla da sola con l’insalata. (Foto sopra m/p)

6 maggio (Vino Vivo)

Mi sono accorto solo oggi che sono passati più di due mesi dall'ultima volta che ho scritto qualcosa sul vino. Non avevo la giusta leggerezza per farlo, per raccontare il sublime piacere delle bolle bianche o di un bicchiere di rosso. Ma non posso dire che il vino e quel senso di appartenenza di cui si nutre siano mancati sulla mia tavola. Grazie a tanti amici, penso in particolare a Nadia, Bruna, Lidia, Luca, Giovanna, Maurizio, Massimiliano, Mauro, è stato il conforto a sera dentro il quale si sono spenti molti pensieri. Quell'attimo di ebbrezza necessaria alla fine di giorni fatti di attenzioni permanenti. Un sorso di speranza, un ritorno con la mente alle mie strade rosse inghiottite all’improvviso da una voragine: vita e mestieri, vino e note, terra e curve, sguardi e parole senza trucco finite in un fosso senza nemmeno il tempo di saltare dal finestrino. Con un bicchiere di evasione in mano ho passato in rassegna i volti, sentito le loro voci e ritrovato il sorriso. Mentre la sera non smetteva di accendere il tramonto e la musica di cantare i suoi colori, ho alzato il vino al cielo e ringraziato ogni vignaiolo della terra.

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Non sarà facile per nessuno fare pace col mondo, ritrovare il ritmo giusto per rimanere in equilibrio. Però qualche indicazione l’abbiamo avuta: ad esempio quella improrogabile di avviare percorsi agricoli sostenibili. Nulla di nuovo per chi è vicino al mondo del vino naturale. Ancor più di prima questa comunità avrà però bisogno di un racconto che ne accompagni le ragioni e ne sostenga la sopravvivenza. Che paradossalmente potrebbe diventare ancora più difficile per tutta un serie di difficoltà oggettive che si dovranno affrontare. Non basterà resistere o sentirsi dalla parte della ragione per non sbandare affrontando le tante curve che ci aspettano. Mi ci metto anche io perché in qualche modo mi sento di fare parte di una famiglia che in questi anni mi ha permesso di viaggiare, di incontrare persone straordinarie e di andare ben oltre le pagine dalle quali ero partito. C’è il senso di una comunità viva e la certezza, anche qui, che nessuno può farcela da solo. (Foto sopara m/p)

5 maggio (Milano)

Milano è il tram che corre avanti e indietro dalla finestra della casa dei miei nonni. Dove abito io, in uno di quei quartieri delle nuove periferie, è tutto un po’ anestetizzato e incolore come un Lego. Io preferisco stare dentro la città, vivere il suo movimento e il suo rumore. Mi mette allegria. Mi sento toccato dalla vita che corre veloce e non si ferma mai. Scendo tre piani di scale due scalini alla volta, attraverso la portineria e sono fuori. Corro fino in piazzale Segesta che mi sembra sempre un cerchio enorme. Da lì raggiungo viale Mar Jonio, che non ho mai capito per quale motivo si chiama così, dove mio nonno Oscar ha un’officina: ripara motori elettrici e ogni tanto me ne porta a casa uno in fin di vita da finire a colpi di pinze e cacciaviti. Quando torno a casa nonna Anita di solito è già in cucina a preparare le polpette di melanzane, ma se non sento il profumo per le scale vuol dire che è ancora sul balcone a combattere la sua battaglia contro i piccioni a colpi di scopa e imprecazioni.

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Poi arriva la domenica e funziona così: se gioca in casa l’Inter, sulle rotaie sfila un corteo di tram nerazzurri; se tocca al Milan è un tripudio di striscioni rossoneri. Tranne il pomeriggio del derby: all'andata i colori della bandiere si mischiano in aria, al ritorno sventolano solo quelle di chi ha vinto. Io arrivo da una famiglia liberale e interista, i miei nonni invece sono socialisti e milanisti. Da sempre provano a portarmi dalla parte di Rivera ma io non ho mai tradito Mazzola. Di politica non capisco nulla però il rosso da solo mi sembra proprio un bel colore. Comunque San Siro è lì a due passi, ci vado a piedi con mia nonna che davanti a quel gigante di cemento si emoziona sempre. Io lo capisco perché mi stringe la mano un po’ più forte. Però questa domenica di maggio, forse temendo il tradimento, mio padre ha deciso di portarmi allo stadio a vedere l’Inter che gioca contro il Foggia. Corso lancia Facchetti che crossa in area, rovesciata del Bonimba, gol! Finisce 5 a 0. Torno a casa saltellando con lo scudetto in tasca, con il cuore che fatica a stare nel petto, con la maglia numero 9 tutta sudata che non voglio più togliere. Sono un biscione, ma questa notte voglio dormire ancora nel letto del diavolo. (Foto sopra Archivio)

3-4 maggio (Ritorno al purgatorio)

Abbiamo fatto una tale indigestione di notizie che ci sentiamo come zanzare ingorde: così sazie di sangue che non riescono nemmeno a volare. Siamo tacchini alla vigilia del Giorno del Ringraziamento: messi in guardia dalle fake news ma riempiti per settimane con scodelle traboccanti di trash news. Mentre si metteva dalla parte della cronaca giusta, la stampa mainstream ha infarcito le proprie pagine di notizie spazzatura, contribuendo a diffondere insicurezza e paura. Ha alimentato la narrazione di un domani inesistente, figlio di una distopia allarmistica costruita a tavolino. Un fronte che ha gettato fango su qualsiasi informazione non allineata, trattando ogni opinione alternativa alla stessa stregua di un qualsiasi deficiente che attribuiva l’origine del coronavirus alla tecnologia 5G. Screditare tutto per rendere qualsiasi racconto diverso dalla costruzione ufficiale una bufala, dando invece spazio a credito a personaggi discutibili e sistemici come Burioni. Oltretutto nella certezza che in questa stagione avesse diritto di pensiero solo la cronaca scientifica e mai quella emotiva, come se l’unica speranza fosse un vaccino che non c’è e non il dovere di continuare a vivere.

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Una cura a base di droni e braccialetti , plexiglass e scatole accompagnata da una puntale informazione punitiva. Così feroce da riuscire ad attivare meccanismi di auto protezione dalla fase 2. Uscire responsabilmente? No, meglio restare ancora a casa. Questa è la stagione dei giusti dell’alto castello con in mano il giornalone delle certezze. Di quelli che da lassù hanno giudicato senza mai andare oltre il loro orizzonte senza sfumature. Fare domande, coltivare il dubbio, provare a capire se tutto questo “falso movimento” sia di nostro gradimento non è possibile. Nonostante fin qui ci sia stata una prova di responsabilità generale importante, c’è chi non ha tollerato nemmeno lo sbuffo in nome del popolo meno fortunato: con le loro ciabattine di seta e le loro tonache da saggio, hanno trattato solitudine e fragilità con supponenza o peggio le hanno derise. Ora mi aspetto i peana di chi pensa che il 4 maggio non sia il giorno in cui si torna piano piano al nostro purgatorio quotidiano ma quello in cui si risale veloci veloci all’inferno. (Foto sopra d/a)

2 maggio (L'urlo)

Braccialetti anti-assembramenti, droni, steward, termoscanner, app, vigili, postazioni, sicurezza. È il programma dell'estate 2020 esposto con la stessa enfasi che avevano i manifesti del ventennio. Il mare è diventato l'ultima frontiera di questa stagione in scatola che non concede altri racconti. Vietato uscirne, vietato anche solo immaginare onde diverse. Come se Ulisse e Moby Dick non li avesse mai letti nessuno, oppure Hemingway e Genovesi. Come se non fossimo mai salpati per un'altra terra con De André o Capossela. Come se avessi smesso di sentire le voci degli amici al Giglio, a Ischia e Dolceacqua. Ma davvero per le mie navi son quasi chiusi i porti? Perché ho come la sensazione che chiunque si armi di un binocolo per guardare oltre la prua venga subito sorpreso da un agguato alle spalle. Qui non si tratta di prendere in mano il timone del vascello e di lasciare l’ancora ma di iniziare almeno a disegnare nuove rotte che non siano già segnate da altre sbarre. Credo che nessuno abbia voglia di uscire da Alcatraz per finire a Guantánamo.

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È come se a un condannato continuassero a ricordare che fuori dalla prigione troverà ad attenderlo la libertà vigilata: “Tra poco ti lasceremo andare ma ricordati che nulla sarà più come prima. Ti controlleremo con ogni mezzo e al primo errore ritornerai in cella”. So bene che la metafora del galeotto è una forzatura, ma se ci pensate bene non è poi così distante dalla rappresentazione mediatica di questi giorni e di quelli che verranno. Mentre siamo tutti in attesa della sua venuta, si dipinge un surrogato di libertà così poco seducente da far passare la voglia di riconquistarla. Sarà una tecnica, non c’è altra spiegazione che giustifichi questo quadro che al suo confronto fa sembrare allegro persino L’urlo di Edvard Munch. Una via per tornare a camminare senza barriere non la si può nemmeno disegnare, il futuro è una continua proiezione di rendering che hanno come unico comune denominatore il controllo. Senza dire, perché altrimenti si svela il trucco, che i rendering sono progetti che rimangono quasi sempre solo sulla carta. (Foto sopra m/p)

1 maggio (La fabbrica)

Il mio primo giorno di lavoro è arrivato d’estate, solo qualche settimana dopo la fine della scuola. Non era proprio un lavoro vero: era solo uno stage alla Mantero dove pagavano gli studenti centomila lire al mese. A me che avevo solo 16 anni sembravano un sacco di soldi. Era la seconda metà degli anni ’70. Anni di piombo che facevano rumore. Eppure ricordo solo il suono dei colpi a mitraglia di una fabbrica che sparava navette avanti e indietro nell’ordito dei suoi 100 telai. Mettevo l’olio negli ugelli, caricavo spolette, poi prendevo il treno con le orecchie che ancora suonavano come una tessitura e tornavo a casa. Ero arrivato a Como perché mio padre era stato chiamato da Milano a dirigere la più grande industria tessile della città. Nell’estate del 1978, poco dopo l’omicidio Moro, nel mese di luglio mi chiamarono a lavorare proprio in Ticosa. Lì il clima, nonostante ci fosse mio padre, non era famigliare come quello vissuto l’anno precedente. L'incontro con la realtà della classe operaia, spesso strumentalizzata se non direzionata in battaglie autolesioniste, non fu dei più semplici: la mia innocenza borghese fece a pugni con i miei ardori politici. 

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Sputavo verde, rosso, giallo, il colore cambiava a seconda della ricetta preparata per la stamperia in cucina colori, poi a fine turno bevevo mezzo litro di latte per depurarmi. Giravo tutti i reparti più con l’animo inconscio del cronista curioso che con la voglia di imparare un mestiere che odiavo anche solo per il fatto che mi avesse sradicato da Milano. Facevo domande a tutti ma erano tutti incazzati. Con il padrone e anche con mio padre. Ma non sapevano che ero suo figlio e di certo non lo avrebbero saputo da me. Nemmeno quando mi trovarono appoggiato alla sua auto e me ne chiesero la ragione. Tornai a casa correndo senza bandiere da sventolare. Poi quella fabbrica l’hanno chiusa pochi anni dopo. Non ne fui sorpreso, avevo intuito che sarebbe successo: troppa rabbia dentro, troppo cinismo fuori. Sono solo piccoli frammenti tra i tanti che non ho mai rimosso di quegli anni socialmente feroci. Oggi primo maggio, giorno della Festa del lavoro, sono tornati a pungere. Lo fanno all'alba di una stagione che rischia di inghiottire il lavoro per restituirne solo qualche briciola pagata poco. (Foto sopra m/p)

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