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Martedì, 16 Aprile 2024
Salute

Covid in forma grave, lo studio che spiega chi è predisposto

Secondo una ricerca del CovidHGE, una disfunzione nella produzione o nell’uso dell’interferone I è causa di oltre il 20% dei decessi. Vediamo che cosa significa, perché il virus colpisce di più i maschi e come interferiscono gli auto-anticorpi nella risposta immunitaria

Dopo quasi due anni dall’inizio della pandemia, sono ancora molti i dubbi riguardo i meccanismi dell’infezione da Sars-Cov-2 e i fattori che causano uno sviluppo della forma grave della malattia da Covid-19. Come mai in alcune persone l’infezione ha assunto forme asintomatiche, in altre ha emulato un lieve raffreddore, e in altre ancora ha causato polmoniti severe che hanno richiesto il ricovero in terapia intensiva?

Secondo due nuovi studi del consorzio internazionale “Covid Human Genetic Effort” (CovidHGE), a cui ha contribuito anche l’Ospedale San Raffaele di Milano, all’origine di oltre il 20% dei decessi per Covid-19 (1 su 5) ci sono predisposizioni di tipo genetico o autoimmune. I risultati degli studi, pubblicati in coppia sulla rivista scientifica Science Immunology, hanno dimostrato che il rischio di sviluppare forme gravi della malattia è legato a una disfunzione nella produzione o nell’utilizzo dell’interferone I (gruppo di molecole fondamentali per la risposta immunitaria innata, quella che entra in gioco per prima a seguito di una minaccia infettiva).

Che cos'è l’interferone I e qual è il suo ruolo nella risposta immunitaria

“L’interferone I gioca un ruolo chiave nel garantire l’attivazione rapida ed efficace della risposta immunitaria innata, quella che entra in gioco per prima, in attesa che la risposta adattiva, più lenta e di cui fanno parte gli anticorpi, abbia il tempo di fare il suo corso”, spiega Alessandro Aiuti, vicedirettore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica, professore ordinario dell’Università Vita-Salute San Raffaele e membro del comitato direttivo del CovidHGE. “Ecco perché chi ha problemi nel produrre o utilizzare queste molecole rischia così tanto nel caso di infezione con SARS-CoV-2: perché essendo un virus totalmente nuovo, il sistema immunitario ha bisogno di più tempo per produrre gli anticorpi e può contare per parecchi giorni solo sulla sua immunità innata. Un fallimento di quest’ultima porta a un insufficiente controllo dell’infezione”. I due studi, condotti sotto il coordinamento generale di Jean Laurent Casanova, della Rockefeller University di New York, e di Luigi Notarangelo e Helen Su, entrambi del National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Bethesda, spiegano per la prima volta alcune delle incognite riguardo le forme gravi di Covid-19 e aprono la strada a nuove possibili strategie di prevenzione nei soggetti a rischio e di trattamento mirato.

Primo studio: perchè il Covid-19 colpisce di più i maschi (predisposizione genetica)

Il primo studio si è concentrato sul ruolo di alcune varianti geniche e ha dimostrato che l’1% delle forme gravi di Covid-19 negli uomini giovani (sotto i sessant’anni) è dovuta a una rara mutazione di un gene presente sul cromosoma X (uno dei due cromosomi sessuali che determina il genere di una persona), chiamato TLR7, fondamentale per stimolare la produzione di interferone I. Questa mutazione, trovandosi sul cromosoma X, ha impatto solamente nella popolazione maschile, che non possiede una seconda copia del gene (in un uomo sono presenti sia una cromosoma X che un cromosoma Y; in una donna, ci sono due cromosomi X). “Mutazioni di questo tipo potrebbero spiegare perché le forme gravi di Covid-19 colpiscono maggiormente le persone di sesso maschile anche in giovane età. Si osserva, infatti, che in media, anche nelle persone giovani, il rischio di contrarre forme gravi della malattia negli uomini è circa 1 volta e mezza quella della popolazione femminile,” spiega Giorgio Casari, responsabile della genomica clinica presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e professore ordinario di Genetica Medica all’Università Vita-Salute San Raffaele. Il contributo offerto dal San Raffaele alle attività di sequenziamento è stato possibile grazie alla conservazione dei campioni di tutti i pazienti Covid-19 all’interno della biobanca dedicata, istituita presso l’ospedale nel pieno dell’emergenza sanitaria.

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Secondo studio: come interferiscono gli auto-anticorpi nella risposta immunitaria (predisposizione autoimmune)

Il secondo studio si è concentrato su un altro meccanismo responsabile di interferire con il funzionamento dell’interferone I nelle prime fasi dell’infezione: in questo caso, infatti, invece di mutazioni genetiche presenti dalla nascita, a bloccare gli interferoni sono degli auto-anticorpi (anticorpi che riconoscono molecole fisiologiche del nostro organismo con risultati disfunzionali o patologici, come nel caso delle malattie autoimmuni). Secondo i dati dello studio, la frazione di pazienti con forme gravi di Covid-19, che presenta in circolo auto-anticorpi contro gli interferoni I, è piuttosto ampia: più del 20% dei pazienti over 80; oltre il 13% in tutte le fasce d’età. Non solo, ma la presenza di auto-anticorpi risulta responsabile di circa il 20% dei decessi per Covid-19, anche qui indipendentemente dall’età.

Gli auto-anticorpi sono più presenti in soggetti anziani e di sesso maschile 

“La presenza di questi auto-anticorpi precede l’infezione da Covid-19, come dimostra l’analisi di campioni di sangue precedenti il contagio, e spiega la distribuzione dei casi gravi, sia dal punto di vista della suscettibilità degli anziani che della disparità tra i sessi. Secondo i dati che abbiamo analizzato, infatti, la presenza degli auto-anticorpi è più probabile all’aumentare dell’età, raggiungendo il 4% della popolazione generale sopra i 70 anni. Non solo, ma è molto più frequente nel sesso maschile”, spiega Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute e professore associato all’Università Vita-Salute San Raffaele. L’analisi degli auto-anticorpi per l’interferone I nei campioni San Raffaele è stata effettuata con un test specifico messo a punto proprio nei laboratori del DRI, frutto della lunga esperienza dell’Istituto nell’analisi degli auto-anticorpi per lo studio del diabete di tipo 1.  

Le implicazioni cliniche della ricerca 

La ricerca condotta dal consorzio CovidHGE ha diverse implicazioni cliniche: la possibilità futura di riconoscere la popolazione a maggior rischio per le polmoniti gravi da Covid-19, tramite test genetici o test per gli anticorpi, offrendo a loro cure tempestive e mirate; la probabile efficacia di terapie a base di Interferone I nelle prime fasi di malattia in soggetti selezionati, perché incapaci di produrlo correttamente; la suscettibilità di questi individui per altre malattie virali emergenti (il meccanismo di malfunzionamento della risposta immunitaria innata, in questi individui, è del tutto generale e possiamo immaginare che si presenti anche in altre infezioni “nuove”, dove la memoria immunologica non è di aiuto); la necessità di testare il plasma iper-immune, prelevato da pazienti guariti al Covid-19, prima del suo utilizzo terapeutico: l’eventuale presenza di auto-anticorpi contro l’interferone I rischia di ridurre l’efficacia del trattamento nei pazienti in cui viene infuso il plasma.

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