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«Vivevamo nella convinzione che la Lombardia fosse un mondo perfetto, così non è»

Luca Viscardi, direttore di Radio Number One e una delle più note voci radiofoniche italiane, racconta la sua battaglia contro il virus e le prime settimane di "buio totale"

La provincia di Bergamo è una delle zone più colpite dalla pandemia, quella che in Lombardia ha pagato il tributo più alto in termine di vittime. Ed è nel suo capoluogo, dove vive e lavora, che Luca Viscardi, direttore di Radio Number One e una delle più conosciute voci radiofoniche italiane, ha contratto il Covid-19, la terribile malattia respiratoria che scaturisce dal coronavirus.

Finalmente a casa, dopo un lungo calvario durato cinque settimane, racconta la sua esperienza a QuiComo.

La situazione all’inizio è stata piuttosto curiosa...

"Appena è esplosa l’emergenza, sia a casa sia in ufficio, io sono diventato subito uno di quelli che igienizzavano tutto. Ma non è bastato, perché il 2 marzo ho iniziato ad avere la febbre, il fiato corto e dolori al torace. Nel giro di un paio di giorni ho scoperto che il collega con cui condivido lo studio era risultato positivo. A questo punto, essendo molto spossato e con una serie di sintomi strani, ho iniziato a chiamare tutti i numeri dell’emergenza che ci erano stati comunicati per raccontare i miei sintomi e il fatto di essere stato a contatto con una persona positiva e già ricoverata. Tuttavia, per molti giorni mi sono sentito rispondere la stessa cosa: se sta peggio chiami domani".

Nessuno le ha fatto fare un tampone?

"No e così, dopo una settimana e una notte in cui il respiro era peggiorato, ho chiamato l’ambulanza e sono stato portato all’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo. La casualità di essere stato assegnato lì è forse stata la cosa migliore che potesse capitarmi, perché si tratta di una struttura incredibile, con professionisti in grado di fornire un’assistenza medica di altissimo livello. Era il 9 di marzo, il giorno in cui in Lombardia scoppiava la grande emergenza. L’impatto iniziale con il pronto soccorso dava l’idea di una condizione di guerra: lettini ovunque, decine di persone in attesa di un tampone e i sanitari che operavamo come fossero davvero all’interno di un campo di battaglia. Dopo due giorni al pronto soccorso e il tampone risultato positivo, ho iniziato le cure con un mix di farmaci, compresi quelli per l’hiv. All’inizio non hanno avuto effetto e anzi le mie condizioni sono peggiorate".

Possiamo dire che lei è un soggetto sano senza altre patologie, giusto?

"Sì, ho 50 anni e non ho mai sofferto di nessuna malattia, non sono un agonista ma ho sempre fatto sport. Ciò nonostante mi sono ammalato seriamente e le prime due settimane in ospedale sono state di buio totale".

Riusciva a comunicare con la sua famiglia?

"La prima settimana sì, la seconda ha avuto un blackout totale e non riuscivo nemmeno a mandare messaggi con il cellulare. Mia moglie è rimasta comunque in contatto coi medici che anche dal punto di vista della comunicazione quotidiana sono stati fantastici. Tra l’altro c’erano due addetti che giravano in reparto dando supporto a tutte le persone che non avevamo o non riuscivano a utilizzare un telefonino".

Dal punto di vista umano e medico è stata quindi un’esperienza positiva.

"Assolutamente sì. Abnegazione, attenzione, dedizione che forse mai avrei immaginato. Ma intanto sono arrivato alla seconda settimana senza segni evidenti di miglioramento. Così sono stato messo sotto il casco dell’ossigeno per aiutare i polmoni a respirare e ho iniziato anche la terapia con i farmaci anti-artrite. La combinazione ha avuto un effetto miracoloso e mi sono riacceso. Il corpo ancora non rispondeva ma ho avuto la netta sensazione di essere di nuovo attivo almeno con la testa. Ho passato poi ancora altro tempo a letto senza riuscire a fare nulla, ma alla scadenza della terza settimana sono riuscito a camminare fino al bagno".

C’è stato un momento in cui ha pensato di non farcela?

"Caratterialmente questa idea non mi ha mai sfiorato. Però a un certo punto mi sono reso conto di avere reazioni inesplorate, anche in senso negativo come l’ansia, di cui non ho mai sofferto, dovuta all’incertezza di non avere prospettive definite; per alcuni giorni ho avuto anche difficoltà nel gestire il tempo che non passava mai. I farmaci mi causavano delle scosse prima di prendere sonno e a un certo punto ho supplicato i medici che mi dessero qualcosa per dormire. Poi c’è stato anche l’effetto claustrofobico del casco dell’ossigeno: la prima notte ho strappato tutto, poi i medici mi hanno detto che era indispensabile per evitare la terapia intensiva e con alcune istruzione è andata meglio".

Ha iniziato a vedere la luce?

"Sì, e il supporto di molti amici è stato importante. Anche di quelli che non frequentavo da tempo e che mi hanno fatto sentire in tutti i modi possibili il loro calore umano. Mi ha sorpreso perché ho sempre pensato che certi momenti di dolore e sofferenza fossero da vivere in silenzio. Invece l’affetto delle persone, anche della grande famiglia di Radio Number One di cui faccio parte, è indispensabile".

Come ha gestito la malattia con suo figlio?

"All’inizio non capiva, anche perché abbiamo un rapporto molto stretto, fatto di gioco e di contatto. Scomparire andando in ospedale, dove non mi poteva né vedere né chiamare, all’inizio lo ha preoccupato, anche se mia moglie gli ha spiegato che tutto ciò era una misura di protezione anche nei suoi confronti. Poi, dopo le prime settimane, abbiamo ristabilito dei riti quotidiani con le videochiamate e le cose sono andate meglio. Tutto ciò mi permette però di aprire una parentesi su bambini sospesi anche dalla scuola in questi mesi di pandemia. Sarà un allarme da tenere acceso, vista la mancanza di uniformità con cui è stato gestito il problema. Occorre aprire un dibattito perché i bambini devono anche interagire tra loro e non solo studiare. Quanto tutto sarà finito non potremmo dimenticare la questione scuola e come è stata affrontata".

Torniamo a lei, dopo cinque settimane finalmente a casa...

"Il giorno in cui abbiamo trattato il mio rilascio (ride, ndr) è stato un momento bellissimo, anche se volevano tenermi ancora un paio di giorni. Alla fine la sensazione è stata fantastica. Ora dal giorno di Pasquetta sono isolato a casa, uso una mascherina con mia moglie e mio figlio".

Ma è stato fatto un tampone a sua moglie?

"No. Io sono scandalizzato dalla gestione della sanità in Lombardia. Trovo che ci sia una spaccatura netta tra chi gestisce gli ospedali da fuori e le persone che ci lavorano dentro. Questa emergenza conferma l’idea negativa che mi ero già fatto prima, con l’esperienza dei miei genitori, della macchina organizzativa. Mia moglie, per tornare a lei, è stata chiamata e a suo tempo invitata a rimanere a casa fino al 24 marzo, per 14 giorni dopo il mio ricovero, poi nessuno si è fatto più sentire. Io sono stato invece dimesso, dopo un’ultima settimana in un’altra struttura, perché non necessitavo di altre cure e sono in attesa dell’esito dell’ultimo tampone".

Esiste una questione politica?

"Esiste il rischio che si tratti il tema affrontandolo solo da quel lato. Invece mai come ora abbiamo bisogno di levarci le maglie della nostra squadra e di smettere di essere tifosi. Occorre una riflessione sulle persone e sulla adeguatezza del ruolo".

Alla fine di questa esperienza cosa ha riportato a casa?

"Il fatto che quando pensiamo che qualcosa sia lontano da noi e non ci possa toccare, non è affatto vero. Il fatto che vivevamo con la convinzione che la Lombardia fosse un mondo perfetto e così non è. In questo senso dovremo fare tutti una bagno di umiltà. Infine l’elemento umano di chi mi ha curato, in quei giorni medici e infermieri sono stati straordinari e noi tutti i malati abbiamo sentito che facevano il tifo per noi".

Vuole con concludere lasciando un messaggio positivo?

"Io penso che ci aspetti un periodo difficile. Ma ce la faremo solo se capiremo che facciamo tutti parte di un motore che deve ripartire con la spinta di tutti. Senza che ognuno di noi stia ad aspettare che arrivi dall’alto l’aiuto di qualcuno. Sono dell’idea che ognuno dovrà fare la sua parte senza diffondere negatività, pensando che questo passaggio ci porterà a ripensare profondamente a quello che vogliamo per il nostro futuro".

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