Al Museo della Seta di Como la mostra del Carnevale di Schignano
Il Museo della Seta di Como, fino al 20 aprile, per cinque settimane, celebra l’esorcismo festoso del Carnevale di Schignano con una mostra di abiti, tessuti, maschere e le splendide fotografie di Mattia Vacca tratte dal pluripremiato volume A Winter's Tale.
Complessa come una partita a scacchi, la liturgia dei personaggi che affollano le ripide vie del paese di Schignano fanno del Carnevale una grande occasione per il Museo della Seta per raccontare, in un modo inatteso e provocatorio, una parte della sua storia fortemente connessa con il territorio comasco. Viene spontaneo chiedersi quali affinità possano esserci tra una manifestazione giocosa e irriverente e i tessuti filati dai bachi da seta. La seta è protagonista del racconto perché parla
dell’emigrazione e del ritorno, diviene simbolo ostentato di coloro che nel tornare con la fortuna in mano non vedono l’ora di mostrarla a tutti. I panciotti colorati da sete sgargianti dei bej (nell’immaginario collettivo i ricchi sono sempre belli) sono ostentati con fierezza, i ricami e i gioielli di nozze attaccati ai panciotti sono il linguaggio della fortuna economica contrapposta alla rudezza dei vestiti dei brut, coloro che partono e tornano poveri.
Cinti da pesanti campane bovine, i brutti trascinano vecchie valigie di cartone, simbolo di un viaggio che non li ha destinati alla fortuna ma al misero ritorno. Se è vero o no che Schignano derivi da una radice greca che significa chizzo, quindi “isola” o “cuneo”, che si trasformerebbe poi in una forma verbale quale chizzomai, ovvero “tagliato fuori dal resto del mondo”, poco importa. Vale forse di più l’appellativo che gli indigeni rivolgono al resto del loro orizzonte geografico, la Valle Intelvi, che apostrofano con cu da val per identificare quelli che popolano il resto della valle, cioè gli altri che non possono appartenere alla medesima radice culturale. Si sa, le isole creano ibridi e li conservano: se a una prospettiva chiusa si aggiunge l’ingrediente della transumanza economica, la celebrazione ricorda le dominazioni straniere e tutto questo diventa il Carnevale di Schignano, un contenitore aperto sui miti e sulle dionisiache rappresentazioni di potere che hanno nel fantoccio del carlizep o zep l’icona di riferimento. Un giovane coscritto, elemento che data il carnevale alla coscrizione obbligatoria voluta con la Repubblica Cisalpina dal 13 agosto 1802 su proposta di Francesco Melzi d'Eril, prende il posto di questo feticcio-golem durante l’ultimo giorno del Carnevale e anima con tre simboliche fughe il tentativo di prigionia a un ceppo. La gogna del rogo del martedì grasso spegne, consumando, la ritualità esorcistica, il carnevale finisce con le ceneri del zep e con il suono delle campane di piazza San Giovanni che annunciano l’inizio della Quaresima.
L’inizio di tutto è il 5 gennaio, con il ballo della vegeta, riservato ai soli coscritti (ma da qualche tempo anche alle giovani coscritte). La contrapposizione ancestrale si rivela tra i brut, folli e disarmonici abitanti di una valle ingenerosa e i bej o mascarun, ricchi rimpatriati che fanno ritorno ostentando la fortuna fatta in terre straniere meno ostili. Il contrasto è forte e si palesa tra maschere raffinate realizzate con armonia d’intaglio e maschere più rudi, asimmetriche con lineamenti marcati e incisi. Al suono dei campanacci bovini e sordi dei brut corrispondono i suoni armonici delle belle campane dei bej, accordate e gradevoli. Alle sontuose e colorate sete a colori sgargianti dei ricchi, corrispondono le ruvide canape dei brutti. Mentre gli attori principali recitano silenziosamente la parte loro affidata in questa simbolica contrapposizione tra lusso e povertà, l’unico personaggio che ha diritto di parola è la ciocia, moglie del ricco mascarun, portata simbolicamente alla corda dal marito, mal vestita e col volto annerito dal fuoco domestico (in schignanese mugnata). La ciocia racconta in prima persona la fatica di chi resta e di chi aspetta.
Al braccio porta l’ultimo infante nato e ci ricorda, tra strepiti e insulti rivolti al proprio marito, la fatica del quotidiano e la miseria degli inverni nella segregazione montana; la dominata al giogo del più forte che si ribella con improperi, il popolo che si ribella al tiranno. In mezzo all’apparente trama caotica, l’ordine costituito è garantito da personaggi secondari, da una immaginifica quinta scenica rappresentata da due sapeur (zappatori più semplicemente “homo selvaticus” dei miti alpini?) che scortano la sigurtà: il potere costituito, l’antico responsabile della manifestazione, l’autorità locale che rappresenta nei suoi abiti civili e il copricapo militare l’ordine e la giustizia che veglia sulla baruffa di strada. Il Carnevale finisce dove è cominciato, in piazza San Giovanni, al suono della fugheta, la banda la cui musica accompagna tutte le fasi del Carnevale e ne detta il ritmo frastornante, quasi da trance. Il zep, appeso durante la vegeta del 5 gennaio su un balcone della piazza, viene dato alle fiamme in una sorta di sabbah di persone che gli girano attorno festanti. Tutto finisce, le campane suonano. Seguono quaranta giorni di penitenza sino alla Pasqua, ma la malinconia viene spezzata, nel giorno di mezza Quaresima, quando impunemente si torna a festeggiare: occasione che il Museo della Seta ha raccolto e ha voluto raccontare a tutti.
La mostra è stata inuugurata mercoledì 14 marzo alla presenza di tutti i protagonisti della bella iniziativa.